Interviste d’Autore – Michele Lalla

Cos’è per lei la scrittura, quale funzione assolve nella sua vita? Come è nata questa sua passione?
I due interrogativi costituiscono, in realtà, tre domande, esplicitate di séguito, alle quali si dànno risposte distinte.
“Cos’è per lei la scrittura?”
La visione soggettiva non può prescindere dalla definizione linguistica, che descrive la scrittura come rappresentazione della lingua, ossia del codice comunicativo, per mezzo di segni grafici; quindi, in senso antropologico, come la possibilità di esprimere il pensiero e comunicarlo agli altri simili ora e/o in futuro. In tali definizioni le parole chiave sono comunicazione e pensiero. In consonanza con la definizione vocabolaristica, per me la scrittura è comunicazione di riflessioni, ragionamenti, percezioni, sentimenti, conoscenza; è un po’ gnoseologia e un po’ maieutica, induce la e conduce alla filosofia per essere anche un po’ terapeutica. Ci si può rivolgere a sé e agli altri. In quest’ultimo caso si tratta di un’attività di grande responsabilità, perché il coinvolgimento degli altri esige chiarezza d’espressione, fondatezza dei fatti, logica ineccepibile nei ragionamenti e nelle conclusioni. Tali princípi valgono sempre, ma sono piú cogenti nella prosa e, in particolare, nei saggi, mentre in poesia c’è una maggiore elasticità e libertà: l’irrazionale e l’illogicità sono spinte propulsive verso orizzonti inesplorati e ammalianti, dai quali si può tornare arricchiti sia di visioni inesprimibili e appaganti sia di esperienze generatrici di punti di svolta per l’io. In tali casi la scrittura è muta d’accenti e loquace di silenzi, è metamorfica e trasformatrice, è un processo frattale che riempie il vuoto cognitivo o un contesto situazionale attraverso un lampo improvviso di luce che illumina aspetti di una realtà non sempre sperimentata; si estrinseca tramite la scelta e l’accostamento di parole necessarie e motrici di movimenti interiori e esteriori, nel rispetto eventuale delle regole metriche, con rime o assonanze o consonanze, il significato semantico delle quali (parole) si lega al suono musicale dei fonemi e al tonico ritmo degli accenti.
“Quale funzione assolve la scrittura nella sua vita?”
La funzione è intimamente e intrinsecamente connessa al perché-scrivo. Con severità e impudenza si potrebbe rispondere che svolge il cómpito di appagamento della vanità e del narcisismo: la prima è incentrata su di sé e ci eleva (impropriamente) di fronte alla decadenza e/o anomia, all’indistinto, alla alienazione, alla anonimia; la seconda è proiettata verso gli altri, con i quali ci si confronta e ci eleva erroneamente a un livello piú elevato. Ognuno di noi deve affrontarli entrambi per volgerli al meglio e trasformarli in sproni. Accanto alla vanità e al narcisismo dell’essere coesistono altri fattori che fungono da propulsori e dominano entrambi sino a annichilirli. Tra questi ci si limita solo all’impermanenza e alla scomparsa ineluttabile di ciascuno di noi. La scrittura è un antidoto all’impermanenza: tutto cambia velocemente nel cuore e nella mente, nel tempo e nell’ambiente, nella storia e nella memoria, negli altri e nel presente che nel momento stesso dell’essere non è piú; invece, lo scritto rimane là e fissa la visione, il momento, l’illuminazione, il fluire interminabile del tempo. La scrittura è un bastione immaginario e improbabile contro la morte, la sparizione: è immaginario o illusorio, perché esiste solo in noi l’idea di sopravvivenza tra gli altri dopo il decesso; è improbabile perché non c’è arresto all’oblio che ci attende, ma la speranza di restare in qualche forma di ricordo negli altri è prepotente e richiede un certo lavoro su di sé per superarlo.
“Come è nata questa sua passione?”
Riporto una parte della risposta data a una domanda simile: “[Note] III. Intervista immaginaria” in Poesie in dialetto abruzzese: 1970-2020 (Amazon, 2020, pp. 292-303). L’inizio, a volte incerto e indefinibile nel tempo, è un forte innamoramento, una passione, una fascinazione, una mania; questi sentimenti si alimentano da precise (e reiterate) circostanze. L’occasione galeotta fu la lettura (singolare accidente) delle poesie riportate nei testi e nelle crestomazie delle scuole, che imparavo a memoria e ripetevo come preghiere: le litanie e le filastrocche sembravano la stessa cosa, in termini musicali e non blasfemi. Leggere e recitare poesie divennero poi una abitudine, soffocata spesso dall’assenza di libri fino a vent’anni (non vi erano biblioteche in paese e a scuola), dall’esiguo tempo rubato alla vita per la poesia (dopo i venti anni). Fui súbito ammaliato dal fascino della poesia e, in particolare della lirica: la poesia è un attrattore intransigente e totalizzante che coarta chi l’ama a riprodurla per non morire perché è fragile, fatua, fischio di vento e fiocco di neve. Il canto è nulla se non fluisce nell’aria, se non lo senti, se non l’ascolti; pertanto, esige che venga cantato nel tempo, per strada o nel tempio non importa. L’importante è che non ci si sottragga al coro, ma non potevo sottrarmi: piú lo consideravo superfluo e inutile, piú il demone alimentava il desiderio di perpetrare la sua pulsione, le sue note. Era il luogo dove si liberava il narciso. Era l’antidoto all’assenza, alla sofferenza, all’anonimato, alla morte. Cominciavano cosí le scorrerie piratesche nei versi letti che manipolavo per lasciarli (almeno nell’intenzione) integri e pulsanti: poesia di imitazione e di variazioni musicali sul tema, inevitabilmente, in lingua italiana praticata dall’età di quindici anni. L’atto della scrittura appare cosí compulsivo: l’italiano o il dialetto sono accidenti o veicoli per attuare il proprio fine. Si può parlare solo del cibo che si mangia (o si è mangiato), cosí si può scrivere solo con la lingua che si parla (o si è parlata). La mia madrelingua è il dialetto abruzzese, parlato fino a vent’anni. La poesia in italiano era ovviamente la piú frequentata e quindi l’italiano appariva la lingua viva dell’espressione lirica, ma era morta anch’essa per la sua scarsa diffusione e il suo carattere elitario, settario, e aristocratico; il dialetto, invece, era (è) una “sottospecie” di lingua (in estinzione) senza dignità letteraria; ma oltre al microcosmo in via di compressione, la scarsa conoscenza e la rarefatta produzione della letteratura dialettale determinavano la percezione della sua inferiorità.
Ero impigliato nella rete della poesia e avevo ambizioni sconsiderate, come andare oltre le poesie contemporanee, riportate nelle antologie della seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo, che tanto contemporanee non erano affatto; allora, non riportavano Ungaretti, Montale, Quasimodo, e Saba. La mia velleità era tutta inconsapevole, ma i tentativi trascritti su due quaderni erano lodevoli e, talvolta, migliori di quelli attuali: sono finiti al macero nel cambio di millennio. In quei momenti, come ora, riconoscevo e godevo le espressioni ricche di suggestioni, gli ossimori, le paronomàsie, le allitterazioni, le metafore. Soffrivo l’urgenza di spingere la penna sul nudo foglio per disegnare oggetti, personaggi, storie, esaltazioni, amore, malinconie, dolore, nostalgie, disperazione. Non sopportavo la caducità del tempo e delle idee che frustavano a lampi gli occhi, ma se trasportati sulla carta si fermavano, invece, nel loro apparire; mi laceravano la contraddittorietà e l’istantaneità disordinata del pensiero che, se trascritto, era possibile seguire e riordinare con coerenza, fermando la caotica mutevolezza. Sotto l’insegna del “furore divino” (theia mania) e degli obiettivi prefissati, si tracciavano confini precisi alla volatilità dell’ispirazione, ai filtri, alla censura, alla fantasia, alla avanguardia, alla sperimentazione, al rinnovamento.

Gli Haiku “Parole d’artificio” hanno un’impaginazione non allineata… Cosa vuole esprimere attraverso questa grafica scomposta? Perché è per lei fondamentale per comprendere trasmettere i suoi versi?
“Cosa vuole esprimere attraverso [il rientro di una tabulazione in uno dei tre versi degli haiku]?”
La scrittura degli haiku, sia in Giappone, dove tale composizione è nata, sia nelle altre parti del mondo, ha subíto una certa evoluzione nel XX secolo. Di solito è scritto su tre righe per motivi di convenienza e per propositi decorativi; infatti, gli autori giapponesi riportavano e riportano spesso un disegno accanto alla composizione in versi; pertanto, lo spazio grafico occupato dal disegno influenzava e influenza la collocazione del testo: a volte era su un’unica riga orizzontale o verticale, altre volte era spezzate in modo conveniente su due o tre righe. Ciò sin dall’inizio, come nel famoso “Furu ike ya” dell’inventore dell’haiku, Matsuo Bashō, che è scritto su una colonna.
Non tutti gli haiku hanno versi rientranti: in genere sono scritti a bandiera a sinistra, ossia allineati solo a sinistra. A volte, il rientro di una tabulazione è attuato nel secondo verso o nel terzo. Chi lo attua sul secondo verso, presumibilmente, vuole mettere in evidenza il verso che piú spesso contiene il kigo (parola di stagione), giacché in ogni haiku classico deve esserci un riferimento stagionale.
Preferisco mettere il rientro di una tabulazione sul terzo verso perché, in genere, è quello conclusivo, gnomico, illuminante, ribaltante; infatti, un buon haiku dovrebbe presentare il rovesciamento semantico, indice della complessità del sentire poetico e realizzazione di un salto dell’immaginazione tra concetti e figure apparentemente distanti; segno di una frattura che si ricompone, traccia di una fusione empatica e impalpabile nelle antinomie e nelle aporíe del mondo. Il kireji (parola che taglia) è la chiave introduttiva al finale e è costituita da uno stacco, una cesura, un sovvertimento che può essere o meno indicato da un trattino, una virgola, un punto, due punti, eccetera; nella lingua giapponese è resa anche attraverso particolari categorie di parole non traducibili in italiano, come ka (alla fine della frase indica una domanda), ya (implica una uguaglianza, una equazione tra due parole o frasi), kana (enfasi per indicare meraviglia, sorpresa, stupore, ammirazione), keri (suffisso verbale esclamativo, trapassato prossimo), tsu (suffisso verbale, imperfetto), ramu/ ran (suffissi verbali indicanti probabilità). Il kireji è collocato, infatti, alla fine del primo o del secondo verso. Alcuni termini equivalenti possono essere: sí, ecco, già, ora, e cosí via. Spontaneamente lo colloco quasi sempre alla fine del secondo verso, comportando il rientro di una tabulazione del terzo verso, per rimarcare il silenzio necessario, lo strappo dall’inizio, il salto logico; per esprimere il suo effetto anche grafico-visivo sul lettore.
“Perché è per lei fondamentale per comprendere trasmettere i suoi versi?”
Se la domanda si riferisce al rientro di una tabulazione, la risposta è negli ultimi periodi del capoverso precedente.
La domanda può avere anche un significato autonomo piú vasto e generale. In tal caso la risposta è: «No.» In termini astratti e logici, infatti, trasmettere non è fondamentale per comprendere, ma al piú per avere un ritorno da parte del lettore che, in genere, non arriva. La trasmissione concerne i lati oscuri dell’essere, come già detto: vanità, narcisismo, impermanenza, morte, necessità di comunicazione, bisogno di condivisione, fragilità, liquidità, debolezza, eternità, successo, riconoscimento. Eppure, la trasmissione è un possibile passo per introdurre un processo di coerenza esterna della propria comprensione. Per comprendere è necessario e sufficiente sviluppare ragionamenti esaustivi, coerenti con i princípi, improntati dalla logica deduttiva e induttiva; ovviamente, si escludono i paralogismi. È sempre opportuno riflettere su quanto si è condensato nel proprio pensiero e è stato scritto, ma la riflessione da sola non basta, perché è sempre impregnata della nostra capacità logica e visiva, tattile, olfattiva, gustativa, percettiva, e sensitiva. Oltre è impossibile andare. Occorre un confronto esterno, ossia è indispensabile ricercare voci di autori diversi sullo stesso punto espresso nel proprio pensiero, che si presume siano esperti, illuminati, responsabili, sagaci, e onesti. Indubbiamente, è utile avere anche un confronto con familiari e amici (non poeti, poeti, e critici) al fine di ottenere punti di vista che illuminano fronti inesplorati lungo i quali si è costretti, cosí, a camminare. Senza trasmissione/ comunicazione/ pubblicazione/ confronto/ discussione il processo di comprensione piú ampio e verificato, sia pure parzialmente, non parte nemmeno: è quasi come dire che senza gli altri non siamo niente. Gli altri sono il nostro specchio, il nostro puntello all’esistenza: sono/ siamo perché gli altri sono.

Una sezione delle sue poesie è dedicata alla guerra in Ucraina. Come questo evento ha influenzato la sua poetica?
La poesia politica è un argomento rischioso per le difficoltà di scrittura: si scivola facilmente nella teatralità del testo, nella retorica, nella narrativa, nell’invettiva, nello scontato, nell’usurato, e cosí via. Nelle raccolte precedenti c’è stato solo qualche limitato tentativo dettato dall’insopprimibile necessità di esprimere il proprio disappunto, dolore, e turbamento di fronte a certi episodi. Solo il libro Vita in B minore (Amazon, 2019) contiene un consistente numero di testi dedicati a argomenti politici e alla guerra, i quali corrono tutti i rischi sopraelencati e restano sempre là, sul crinale, nonostante siano sorretti da una architettura che lo consente, giacché in tutti i novantuno testi è un bruco a parlare; pertanto, può prendersi tutte le libertà che vuole: lirismo e antilirismo, critica politica e esistenziale, progettualità e disfattismo, esaltazione e depressione, prosasticità e poeticità, oscurità e irriverenza, chiarezza e insolenza.
Le poesie sulla guerra in Ucraina sono nate dalla reazione alla dilagante propaganda di guerra che ha inondato i media (televisioni, giornali, reti sociali). Ho una posizione personale particolare e molto minoritaria. La convinzione della giustezza dei miei ragionamenti, forse pure a torto, ma non credo, mi ha indotto a esprimerla attraverso i versi, nei quali ho cercato di insinuare debolmente una visione critica e cristiana. Solo in questo senso si può parlare di influenza della guerra in Ucraina sulla poetica di quei testi; infatti, rispetto ai miei scritti politici e sociali del passato, ho individuato frasi con parole necessarie, sfumate, suggestive e induttive alla riflessione. Un possibile modello di riferimento è Bertold Brecht e non Vladimir V. Majakovskij, per esempio, perché quest’ultimo è molto piú teatrale e roboante, accorato e martellante, con piú ritmo scenico e monologante.

Qual è il momento della giornata che predilige per la scrittura dei suoi componimenti?
Dall’adolescenza all’età della pensione, la poesia e le immagini a essa correlate colmavano le pause giornaliere e inondavano il termine della giornata: da mane a sera studiavo o lavoravo sempre. È ovvio, appena potevo, cercavo di trovare spazio anche per il gioco e le relazioni con gli amici. La poesia emergeva nella pausa finale del giorno e nella soddisfazione di avere già compiuto il proprio dovere, nella completezza del tempo che era a sua disposizione e lei l’esigeva tutto. La poesia è una esperienza totalizzante del cuore e della mente, è theia mania, è il demone che ti prende e ti conduce nel fuoco della creazione, è la forza che si oppone al sonno; forse è il falso antidoto all’insonnia giacché senti, scrivi, e non dormi; cosí, non ti accorgi dell’incapacità di dormire e della paura della morte, dell’insopprimibile bisogno di essere vivo sempre; chissà, dormire è come morire e il vivere è nella creazione dei versi. Nelle pause giornaliere, durante le file di attesa, e negli intervalli vari: la mente registrava immagini, pensieri, e metafore. In certi periodi, le trascrivevo in un taccuino o un semplice foglio di carta. Intanto il tema e gli oggetti coinvolti vagabondavano nella mente, nel cuore, nella carne; diventavano pensieri dominanti e, a volte, ossessione. Nei momenti di libertà completavo il testo; poi, lo lasciavo decantare; lo rileggevo dopo alcuni giorni e, spesso, procedevo a aggiustamenti sempre apparentemente minimi, ma anche il minimo, una parola o un verbo o un avverbio, possono essere determinanti in una poesia, perché il testo è generalmente breve. Il testo doveva mantenere l’atmosfera nel tempo; perciò, lo lasciavo nel cassetto anche per molti anni e ogni tanto lo rileggevo; a volte, apportavo qua e là eventuali modifiche, cercando di non snaturare lo spirito originario, specialmente se era incluso in una raccolta già architettata. Tant’è che il libro Le cinque stagioni (Amazon, 2018), costituito da cinque sezioni con cinquanta poesie ciascuna, che considero il mio canzoniere, ha richiesto cinquanta anni per l’edizione definitiva; e magari non lo rileggo piú per evitare la tentazione di apportare qualche lieve cambiamento qua e là; in realtà, i testi sono apparsi sufficientemente solidi e stabili anche durante una recente rilettura.
L’avvento della videoscrittura, nel 1980, e il tipo di lavoro svolto, docente di statistica sociale presso l’università, hanno cambiato un po’ la scansione giornaliera della scrittura scientifica e letteraria e, quindi, anche gli orari. Condensavo la mia attività agli amici, o a chi mi poneva domande inerenti al tempo di lavoro, con la frase: “Quando smetto di lavorare, lavoro”. Con ciò si intendeva che ho vissuto la mia vita in prevalenza di fronte a uno schermo o un video e che smettevo di lavorare solo dopo avere assolto all’obbligo o al dovere dell’ufficio (per il quale ero pagato) – il cómpito consisteva nell’elaborazione dei dati e nella scrittura dei risultati scientifici, oltre a altri obblighi istituzionali – e súbito cominciavo la piacevole e necessaria attività di scrittura in versi o in prosa, pur coartato dal demone. Scrivere, infatti, è anche un lavoro e è assai impegnativo. In alcuni momenti, lavoravo tutto il giorno nella scrittura in prosa e recuperavo in momenti diversi il lavoro d’ufficio e di ricerca, ma è accaduto rarissime volte: il piacere dopo il dovere, cosí pure la scrittura (poesia e/o prosa) dopo il lavoro, pur costituendo essi stessi un impegno simile al lavoro. Naturalmente, tutto ciò avveniva quando non lavoravo/ studiavo anche di notte, perché molte volte, troppe volte, ho lavorato/ studiato sia il giorno sia la notte. In conclusione, il momento prediletto per la scrittura era il dopocena, ossia la sera e la notte; ora è tutto il giorno, perché sono in pensione, e meno la notte, perché a sera sono sovente piú stanco e piú pigro.

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