Interviste d’Autore – POAHF89

Il suo romanzo “Quando l’immaginazione diventa schizofrenia” è di natura prettamente autobiografica. Quanto le è costato, in termini emotivi, mettere nero su bianco gran parte della sua vita? Si può dire che scrivere questo libro abbia avuto anche dei risvolti terapeutici?

“In realtà più che un’autobiografia, mi piace pensare alla mia opera come un memoir. Quindi sì, ci sono riportate molte mie esperienze personali e ricordi, ma c’è anche una buona dose di denuncia sociale che riguarda le malattie mentali nel contesto della nostra società: a lavoro, negli ambienti psichiatrici, con gli amici, nelle relazioni. Per rispondere alla domanda, mettere per iscritto le mie esperienze peggiori col disturbo schizoaffettivo di tipo bipolare ha sicuramente richiesto un carico emotivo non indifferente, anche solo nel ricordarmi i dettagli di quelle brutte situazioni. Tuttavia, scrivere sul mio male mi ha aiutato molto a fare introspezione e a valutare quegli episodi con più distacco e a mente fredda (e quindi con più precisione, avendo scisso da essi la parte emotiva, che ho però ampiamente descritto). Scrivere ha aumentato la mia consapevolezza su ciò che sono in grado di fare bene, ma anche su dei limiti che la malattia mentale mi ha imposto in passato. Mi sono reso conto che molti di essi sono stati dettati dal non parlarne mai, quindi in un certo senso autoimposti come meccanismo di difesa.”

Ha deciso di pubblicare utilizzando uno pseudonimo. Come mai ha fatto questa scelta?

“Ho pensato ai pro e contro di utilizzare o meno il mio vero nome. Sono arrivato alla rapida conclusione che usare uno pseudonimo fosse un modo per tutelarmi psicologicamente. Credo che la maggior parte dei miei conoscenti, amici e parenti non siano pronti a leggere questo libro che scava nella mia psiche, per cui preferisco consigliarlo a una cerchia ben più stretta, oltre al lettore qualunque. Persone che immagino possano rimanere colpite, che posso far riflettere, invece di altri che ricorrerebbero al mero giudizio. Qualche anno fa rimasi completamente rapito dall’interpretazione di Joaquin Phoenix nel film meravigliosamente scritto di Joker, talmente tanto che il giorno dopo averlo visto al cinema aprii il mio blog col nome Put on a happy face, da lì lo pseudonimo Poahf89 col mio anno di nascita. Ho scelto quella frase per le maschere che la società ci obbliga ad indossare, persino dalle persone più sincere e autentiche: nessuno ci scappa, prima o poi capita a tutti una situazione in cui bisogna fingere, anzi è una vera e propria recitazione. A me capita continuamente e mi reputo tutt’altro che un ipocrita, piuttosto forse un incoerente, ma vero, con tutte le mie irrazionalità.”

C’è un messaggio in particolare che desidera veicolare attraverso la narrazione della sua storia personale?

“Assolutamente, più di uno. Il primo, per cui ho cominciato a scrivere della mia patologia, è sicuramente far capire a chi soffre una condizione simile alla mia che non sono soli. Può apparir banale, ma pochi possono comprendere la disarmante solitudine e senso di totale abbandono che provano la stragrande maggioranza dei malati mentali. Non importa di quante persone siamo in grado di circondarci, quella sensazione permane nell’abisso della nostra anima e attende solo di riemergere. Un altro messaggio è rivolto invece a chi è reputato sano, “normale”. Vorrei che riservassero maggior riguardo verso la mia categoria, vorrei che cambiassero prospettiva in modo che il giudizio lasciasse posto all’empatia. Infine, vorrei far capire che c’è ancora molto da cambiare per noi disabili psichici, sia per quanto riguarda le leggi che ci proteggono, quindi i nostri diritti, sia a livello prettamente sociale. Quest’ultimo potrebbe essere perfino più importante come concetto, per combattere lo stigma giorno per giorno, fino ad arrivare al punto in cui non saremo più discriminati, ma anzi rispettati per ciò che abbiamo passato e combattiamo ogni giorno.”

In un passo del libro scrive: “Da un certo punto di vista, sono solo un ragazzo qualunque a cui sono capitate cose terribili.” Quanto ha impiegato per arrivare a questa conclusione mettendo da parte la rabbia o la frustrazione (se ci sono state) derivate dalle sue esperienze di vita?

“Ci ho impiegato anni. Vorrei poter dire che è stato grazie al mio percorso terapeutico, ma in realtà è stato soprattutto grazie alla mia determinazione e alla ferma convinzione nelle mie capacità, che mi hanno fatto arrivare a una tale consapevolezza e pace con me stesso. Confesso che la rabbia e la frustrazione sono ancora presenti, seppur le provi molto raramente e in forma decisamente minore, rispetto ai primi anni del malessere; principalmente e rispettivamente verso le persone che avrebbero dovuto prendersi cura di me e per il tempo sprecato per combattere la malattia. Fra i 15 e 16 anni ero confuso, inconsapevole, ingenuo, mentre fra i 17 e 18 anni accumulai una rabbia e frustrazione gigantesche, come reazione al trattamento altrui riservatomi per il bipolarismo, all’essere incompreso e oltre al fatto che non accettassi ancora la mia malattia. Il tutto sfociò in una escalation di eventi terribili, fino all’esperienza peggiore e più assurda della mia vita, ma questo potrà essere approfondito dai lettori che decideranno di dare una possibilità al mio libro.”

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