IMPARARE A VEDERE GIÀ NEL SEME LA PIANTA, IL FIORE, IL FRUTTO…
«Non dimenticate che la terra si diletta a sentire i vostri piedi nudi e i venti desiderano intensamente giocare con i vostri capelli» (Khalil Gibran).
Il linguaggio “naturale” è l’elemento fondamentale su cui si basa l’ars poetica dell’autrice Francesca Moncini. Con una sua speciale timbrica, la poesia di Francesca va “oltre” l’attingere le proprie parole e i propri versi dalla Natura. La poetessa riesce nell’arduo compito di far nascere i propri componimenti direttamente “dentro” la natura. È un INTRA, un INSIDE, sillaba dopo sillaba il lettore rimane stupito. Legge versi come se toccasse fiori, alberi, piante e come se fosse immerso dentro il tramonto, l’alba, il sole, la luna. La poesia coincide con la natura stessa. Questo LOCUS è, allora, non solo la “casa” della poetessa, ma rappresenta anche l’ambiente che genera la poesia, così come si nota già dai versi programmatici: «Plana,/il bombo sull’elicriso giallo,/gialle,/le rose della mia serra./Tra il gelsomino e l’edera…/penetra,/un raggio di sole,/nel madido patio./È casa» (“Civico 38”). Da tale luogo una voce, che è quasi un grido, si staglia all’esterno, fuori da una selva, da una serra: «Dove trascini le tue Speranze?» (“Tu”). Si tratta di una domanda esistenziale che coinvolge la donna e la poetessa. Solo dal nocciolo e dal nucleo, cioè il cuore, può sorgere la risposta:
«Amasti,/un’alba al tramonto,/Dicesti,/l’antica parola./Sospirasti,/
L’ultimo vagito./Vivresti,/Infinito?» (“Anelito”).
Francesca mostra che, dal più piccolo filo d’erba alla più grande delle montagne, il mondo intero ha un anelito unanime: “Vivere per sempre, sconfiggere la morte, scorgere l’alba nel tramonto”. Vengono in mente i versi di un famoso poeta: «La morte non è una luce che si spegne. È mettere fuori la lampada perché è arrivata l’alba» (Rabindranath Tagore).
Il poeta, quindi, è colui che cammina come un equilibrista su una fune: «Un filo sottile,/spinato e binario/l’ondifuga urgenza/dell’Essere Umano di/funambolare irrisolto» (“Circense”). Tenendo magistralmente tra le mani il sottile equilibrio tra l’essere e il voler essere, il finito e l’infinito, una vita mortale e l’immortalità…quello che Francesca riassume in due versi, definendolo: «La subitanea essenza,/della tua assenza» (“Attimi”).
Eppure basta solo un raggio di luna per ridonare vita al corpo esanime: «La volta stellata/Tu pallida e stanca:/è ciò che non hai,/quel che più ti manca./Esanime./Trinceato il cuore,/nel latrare sordo,/dei tuo baci caldi,/sul mio corpo morto» (“Luna”).
E allora, eccolo il messaggio finale per il lettore, la “lectio” della poetessa. Noi siamo come crisalidi! Destinati a trasformarci in farfalle e con il volo nel divenire. Il presente richiede pazienza ed occhi che sappiano vedere al di là del bozzolo e della condizione attuale: «Amore, nascente/Amore, tenace/Amore, morente/Amore, rapace/Amore, anelante/Amore, audace/Amore, aberrante/Amore, fallace/Amore, Crisalide/Amore, incluso/Amore, Stinfalide/Amore, precluso» (“Crisalide”).
La poetessa nel seme vede già la pianta, il fiore ed il frutto…