Il nuovo libro di Pierluigi Battista. Guardavamo Bambi, ed è per sempre

In «A proposito di Marta», in uscita il 17 per Mondadori, l’autore esplora il confronto tra generazioni. Una figlia che spalanca mondi: fenomenologia dell’amore di un padre

«Conosce tutti i nomi dei fiori, delle piante, degli alberi, di quelli familiari e di quelli esotici. Sa se gli alberi sono frondosi e quanto, e se il fogliame è molto fitto, l’altezza media, le gradazioni dei vari verdi, la lunghezza dei rami, la dimensione dei tronchi, le condizioni climatiche in cui crescono» scrive Pierluigi Battista della figlia. Parole che rendono subito evidente quanto A proposito di Marta. Le poche cose che ho capito di mia figlia (Mondadori) sia qualcosa di diverso dai molti altri libri di padri. Padri cinquantenni/sessantenni che tentano di raccontare la generazione dei figli così diversa dalla loro, come se in trent’anni ne fossero passati cento — e su questo Battista concorda. Seppur con sprazzi di indulgenza, lo sguardo dei padri è sempre critico. Non in questo libro, forse perché qui il narrare dell’autore si avvicina più alla letteratura che al saggio. È letteratura il rapporto padre figlia, è letteratura, grande personaggio letterario, Marta. Marta che vedendo il padre mangiare un’arancia di sera, lo mette in guardia: «L’arancia la mattina è oro, il pomeriggio argento, la sera piombo». Marta bambina che guardando col padre Chi vuol essere milionario? alla domanda: «Cosa è costretto a fare il maschio dell’elefante marino pur di accoppiarsi?», replica sicura «B», risposta B, ovvero: «Si immerge nell’acqua fino a 500 metri di profondità».
Mentre il padre giornalista scrittore disquisisce sulla differenza di generazioni, la figlia prende forma, s’inserisce, puntualizza. Lei esiste, e esiste così tanto da balzare in primo piano. Incursioni vitali che arginano la tentazione alla nostalgia a favore del presente: siamo qui, papà. Come se nella meditazione del giornalista, dell’intellettuale irrompesse di continuo il salotto di casa, Marta che fa capolino dalla porta: «Papi, mi aiuti a svitare il tappo di questa boccetta?», cosa c’è dentro? Bava di lumaca, il padre inorridisce, lei puntualizza: «Mi curo la tosse e il mal di gola, e allora?».
Integerrimo, l’autore torna all’argomentazione, riflette sugli oggetti simbolo della sua giovinezza che nella giovinezza della figlia non rappresentano niente. La ricognizione degli oggetti smarriti, la chiama: lo stradario cartaceo, Carosello, i gettoni, i finestrini dei treni che si possono aprire, la macchina da scrivere, il duplex, l’Unione Sovietica, il Muro di Berlino, i deflettori, «i deflettori? papà, che diavolo sono i deflettori?».
Va detto che questa Marta letteraria (poco importa quanto corrisponda al vero) è irresistibile. E proprio nel cedere il passo a lei, nel farla giganteggiare, Battista racconta molto di sé padre (reale o letterario). Se in altri libri di padri sopraggiunge la morale, l’insegnamento di chi ha maggiore esperienza, qui abbiamo il contraltare. Verrebbe da dire che i padri degli altri libri non avevano una Marta a tenere loro testa, a rispondere al fuoco di domande: sei felice, appagata? credi in Dio? che mi dici dei dieci comandamenti? Onora il padre e la madre, non nominare il nome di Dio invano, non desiderare la roba d’altri? «Assurdo, non faccio altro che desiderare la roba d’altri» taglia corto Marta.
Da vero scrittore Battista disquisisce d’altro mentre i fatti fondamentali avvengono sullo sfondo — senza bisogno di sottolineatura — come la tenerezza. È tenerezza avere il conto in comune dei libri (che paga papà), è tenerezza andare a fare la spesa per Marta quando lei si rompe un piede, è tenerezza comprare cornetti e giornali per lei e gli amici prima che si sveglino (anche se c’è un trabocchetto: vediamo se i giovani leggono i quotidiani). È infinita tenerezza guardare questa generazione non dall’alto, ma da altezze sempre diverse, finanche dal basso, in un dinamismo che contempla ogni tipo di sentimento, dal dubbio alla fiducia. Ecco cosa manca nei libri di altri padri, ecco cosa manca in quello sguardo dall’alto: fiducia. «Se però guardassimo le cose con meno rancore — scrive Battista — avremmo delle sorprese. Fanno gli indolenti, ma hanno immagazzinato un sacco di nozioni e di informazioni per noi sconosciute».
Eppure non è solo una questione di sguardo, ad azzerare la distanza e quindi il giudizio è una concezione temporale immaginaria e credibile che sconfigge la morte.
Di fronte alla scatolone di videocassette dell’infanzia Marta ha venticinque anni, basta però aprirlo per tornare a sei. Marta ha sei anni e guarda Bambi con papà. Ai detrattori, agli adulti che affermano che i film Disney non sono come le fiabe di una volta, perché i bambini lasciano tutto in superficie, Battista risponde: «Chi sostiene questo ho l’impressione che non abbia mai accompagnato un bambino a addormentarsi per cullarlo con le favole che aveva appena visto e rivisto senza tregua in una videocassetta (“ancora!”). E non si è mai sentito rimproverare con inflessibile severità — a me è successo così spesso con lei — se ogni singola battuta non fosse stata memorizzata e riprodotta con inderogabile precisione testuale (“ma che dici!”), se la trama fosse stata anche solo marginalmente e senza dolo alterata (“ti scordi tutto!”), se un nome fosse stato distrattamente storpiato o addirittura, delitto massimo, dimenticato. In quella fucina fantastica che lavora instancabile dentro un bambino imbottito di favole in videocassetta, infatti, ogni dettaglio è stato registrato e immagazzinato per sempre, ed è diventato parte integrante di lui, un mattoncino piccolo ma fondamentale della sua educazione sentimentale».
Dunque Marta ha venticinque anni, poi sei, dodici, di colpo cinquanta, e di nuovo venticinque. Nell’andirivieni tra giovinezza del padre, e giovinezza di Marta, succede che nel salotto di casa (quasi un presente infinito, il tempo del loro rapporto) i due si ritrovino anche coetanei. In un continuo scambio di ruoli — padre, figlia, madre, all’occorrenza fratello, e ancora padre — non ci sono assenze, chi c’era, c’è ancora. Non è mai detto esplicitamente che la mamma è morta né come né quando. Mai un cenno al dolore di Marta. Perché nei salti temporali la mamma torna, e torna nei comportamenti di Marta, persino nei gusti. La mamma c’è sempre, come dice l’ultima riga dei ringraziamenti. E chissà se la scelta di Bambi tra i film preferiti dell’infanzia non dica molto di più di qualsiasi discorso esplicito sulla morte. «La scena della mamma del cerbiatto abbattuta da una fucilata dei cacciatori — scrive Battista — alimenterà in mia figlia un odio imperituro, totale, violento, non negoziabile nei confronti della caccia e degli orribili cacciatori, ai suoi occhi efferati epigoni degli assassini che con le loro doppiette avevano lasciato orfano il piccolo Bambi». Chissà se la risposta di Marta alla domanda se gli animali hanno un’anima non racconti molto di più in merito al dolore. Sì papà, gli animali hanno un’anima. Come Pietro Paladini in Caos calmo (di Sandro Veronesi), che rispetta la scelta della figlia di non mangiare carne di Looney Tunes, così Battista rispetta il pensiero di Marta pur non capendolo («io pensavo che dire più o meno “cane”, o “gatto”, o “zebra” bastassero»). Nella vicinanza, nella differenza sta la letteratura. La letteratura è il divano su cui padre e figlia accoccolati guardano Bambi. Su quel divano insieme a Marta che piange per scoiattoli, topini, libellule c’è lui, il padre. Sempre di fianco alla figlia bambina, adolescente, ora adulta. Già adulta.

di Teresa Ciabatti, il Corriere della Sera

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