L’intervista a Peter Lindbergh

Kate Moss che si trasforma davanti al suo obiettivo, Kate Winslet che chiede di ritrarle le mani: nessun fotografo più di Peter Lindbergh ha saputo liberare l’immagine femminile dal mito di giovinezza e perfezione. Alla vigilia di una grande mostra, qui racconta come.

Nel manifesto della mostra “A Different Vision on Fashion Photography” – da questo mese e fino al 4 febbraio 2018 allestita alla Reggia di Venaria Reale, a Torino –, Peter Lindbergh lancia una provocazione: sceglie Kate Moss, simbolo di eterna adolescenza, di bellezza acerba, e la ritrae poeticamente segnata dal tempo. Una nuova amazzone dai capelli raccolti in un’acconciatura maschile e il corpo stretto in una posa da ragazzo di strada ci guarda con fierezza, ma anche con la malinconia e la profondità dell’esperienza negli occhi. Il fotografo tedesco, celebre per aver raccontato la donna nella sua verità più intima e averla spogliata di ogni superfluo accessorio, libera l’immagine femminile dal mito della perfezione e della giovinezza. «Kate si era presa una pausa di alcuni mesi dal lavoro», spiega Lindbergh. «Quando ricominciò, anche se nessuno lo aveva notato, era avvenuto un cambiamento sostanziale: era diventata una donna. Fu lei a dirmi di sentirsi pronta per un progetto diverso, di essere stanca di giocare alla ragazzina. Gli altri fotografi hanno sempre cercato di mantenerne la stessa immagine atemporale; per me era un tentativo assolutamente ridicolo e anche piuttosto noioso».

Sin dagli esordi, lei nella sua fotografia ha sempre rifiutato l’uso del ritocco nel viso come nel corpo, perché?

È stata una scelta etica oltre che estetica. L’uso indiscriminato del ritocco ci ha abituati a considerare reali personaggi depauperati di tutta la loro umanità; uomini e donne ai quali vengono cancellati i segni del tempo e dell’esperienza dal volto. Sono convinto che la vera bellezza nasca solo dall’accettazione di sé, dalla consapevolezza di chi siamo veramente: è una questione d’identità.

Nel 1988 lei scatta una foto che diventerà un’icona del suo lavoro: sei ragazze ritratte sulla spiaggia senza trucco, vestite solo con una semplice camicia bianca. Un’immagine dalla sobrietà spiazzante, in totale contrasto con l’artificiosa estetica femminile di quel momento.

Il modello che ho sempre avuto in mente erano le mie compagne alla scuola d’arte vestite in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica. Donne pratiche, che avevano progetti e ambizioni da realizzare nella vita. Avevo scelto la spiaggia perché è un fondale piatto e omogeneo, mi avrebbe permesso di concentrarmi su ciò che realmente m’interessava della donna: il volto.

Gli scatti collettivi sono una costante della sua fotografia. Scegliere di avere tante donne diverse nella stessa immagine è stato un modo per sottolineare una visione plurale, non omologata, della bellezza?

Quando nel 1990 mi chiesero una cover per “British Vogue” che doveva esemplificare la mia personale visione della donna, spiegai che non potevo ritrarre una sola ragazza, perché ciò che cercavo era una nuova intenzione, una nuova determinazione femminile; non poteva riguardare solo un singolo, ma un’intera generazione.

Nella ricerca di autenticità ed essenzialità radicale il bianco e nero è stato il suo strumento elettivo.

Sebbene l’uomo percepisca la realtà a colori, il bianco e nero per me è sempre stato legato alla verità profonda dell’immagine, al suo significato più recondito. In questo sono stato influenzato dalla fotografia americana degli anni della Grande Depressione. Lo schietto realismo dei volti ritratti da documentaristi come Dorothea Lange o Walker Evans ha marcato a fuoco il mio immaginario.

Molti fondali delle sue foto sono composti da diversi strati: grandi tende, sedie o attrezzi sparpagliati. La sensazione è quella di un set in continua trasformazione, perché?

È un modo per evitare il senso di perfezione e la chiusura. Al contrario, mi piace operare in situazioni di libertà, di mutevolezza continua, dove è il cambiamento a guidare l’azione.

Lei è l’unico ad aver scattato il Calendario Pirelli per ben tre volte, proponendo sempre uno sguardo anticonvenzionale. Nel 2002 sceglie giovani attrici fotografandole senza svestirle, mentre l’edizione 2017 è dedicata alla bellezza delle diverse età della donna.

Non ho mai pensato molto alla loro età quando facevo il casting. Le ho scelte una per una perché le amavo come donne. La riuscita del progetto è dipesa dalla coesione e dall’energia di gruppo, con molte siamo amici da venticinque anni. Tutte hanno voluto sostenere l’idea di una bellezza libera da falsi miti che si confronta con la realtà e non proporre una versione soft, edulcorata di una quarantenne o di una cinquantenne. Kate Winslet ha perfino insistito per farsi fotografare le mani che sono notoriamente un indicatore non mistificabile dell’età.

Peter ama le donne, le ama profondamente. La connessione non avviene sul piano erotico, ma intimo. Questo dicono di lei molte delle sue muse e anche il suo amico Wim Wenders, che la paragona al protagonista de “L’uomo che amava le donne” di Truffaut.

Le donne sono più aperte, coraggiose, hanno più fegato e si assumono molti più rischi rispetto agli uomini. Io le guardo per quello che realmente sono, forse è questo che le spinge a fidarsi di me.

Cos’è l’età per lei?

Flessibilità e ampiezza di pensiero. Oggi, a oltre settant’anni, il mio approccio alla vita si è semplificato, posso dedicarmi completamente alla sperimentazione. Questo mi porta a trovarmi in situazioni ricche di stimoli, scelte singolarmente, dove tutto ha un significato.

di Beatrice Zamponi, Vogue

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