La metamorfosi in bianco e nero

Non si chiama La metamorfosi, bensì più prosaicamente Culo nero il romanzo d’esordio del trentottenne nigeriano A. Igoni Barrett che cita Kafka fin dall’esergo e col celebre racconto gioca a carte scoperte nell’incipit: il protagonista si sveglia e scopre «che anche i sogni possono smarrire la strada e riapparire dalla parte sbagliata del sonno». Niente carapace in bilico e varie zampette che s’agitano nell’aria questa volta: ciò che lo sventurato Furo Wariboko vede è invece una «pancia bianca come l’alabastro, e più sotto le gambe pallide, con una peluria sottile cosparsa di riflessi bronzei nella luce fredda che filtra dalla finestra aperta» spalancata su una Lagos lurida, intasata e sconfinata.
Anziché trasformarsi in scarafaggio il poveretto s’è svegliato bianco, un vero oyibo, pel di carota dagli occhi verdi fatta eccezione per il deretano, rimasto «di un bel nero gagliardo» (la blatta in realtà c’è, ma è solo una comparsa: sgattaiola sotto l’armadio ed esce di scena). Una madre bussa alla porta anche qui, ma Furo – scaltro come ogni lagosiano – non fa l’errore di Gregor, non rivela la sua trasformazione, se la svigna di nascosto per andare a un colloquio di lavoro e il racconto prende tutta un’altra piega.
I bianchi in Nigeria hanno infatti maggior successo degli scarafaggi in Boemia e il nostro, improvvisamente coccolato da tutte le donne, supera presto il disgusto iniziale di una pelle che «cambia colore a seconda dell’umore», il fastidio degli interlocutori che starnazzano ogni volta che afferma d’esser nigeriano e il giorno stesso trova il lavoro che cercava da anni. Il ben pagato impiego però inizia solo due settimane dopo e Furo, senza più una casa dove tornare, è costretto a vivere alla giornata nella babelica Lagos. Lagos dai mille inganni, con le sue fiumane di piedi e di ruote, di sudori e di scarichi, di vite avvinghiate alla morte è il personaggio più riuscito e affascinante di Culo nero, non a caso apprezzato da un flâneur quale lo scrittore nigeriano statunitense Teju Cole.
Le pagine più belle sono quelle che si inoltrano nelle infinite anse di questa megalopoli dove «la vita è una lotta continua contro l’empatia» e venti milioni di uomini si muovono da fetide e infide baraccopoli senz’acqua a ariosi quartieri coi vialetti ricoperti di sabbia bianca, attraverso estesi blackout e immonde discariche. Sono le pagine che descrivono il profilo della città: «le cisterne di plastica montate in cima a un battaglione di torri arrugginite, unica fonte d’acqua per ciascun compound. E sul retro delle case fortificate i muri in cemento coronati da schegge di vetro, spuntoni di metallo e filo spinato. E lo strepito e il furore fumoso di innumerevoli generatori fanno a gara per attirare l’attenzione. Quel ruggito snervante è la conseguenza di un governo nel quale ognuno pensa a sé stesso, un governo che permette il linciaggio, che consente alle folle di impartire ingiustizia sulla pubblica piazza. La fornitura privata dei servizi pubblici ha trasformato ciascuno in giudice e boia, ha trasformato i cortili sul retro delle case in desolazioni post-industriali. Ognuno è il re in casa sua, e ogni casa una nazione sovrana e ogni nazione si procura da sola difesa, elettricità, acqua. Lagos è una città di milioni di stati in guerra tra loro».
Nella sua Metamorfosi in bianco e nero Barrett dà vita a una satira sull’identità razziale e sessuale (l’autore stesso fa capolino nel romanzo, per trasformarsi poi in donna), interrogando soprattutto i pregiudizi dei neri verso i bianchi e viceversa e le molte asimmetrie e mancate reciprocità (per esempio Furo s’inventa di essere un nigeriano perché adottato da una famiglia locale emigrata in America e la bella Syreeta risponde «Non pensavo che i neri potessero adottare bambini bianchi»).
Ma quando si arriva all’epigrafe che precede l’ultimo capitolo, nientemeno che una citazione dalle trasmutazioni più immortali, il rivoluzionario capolavoro di Ovidio, si è ormai consapevoli che in Culo nero le metamorfosi non hanno saputo farsi metafora compiuta e che Barrett, non riuscendo a salire sulle spalle dei giganti, ha finito per perdersi nella loro immensa ombra.
di Lara Ricci, il Sole 24 Ore

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