Interviste d’Autore – Giacomo Garzya

“Il riverbero delle parole” e “Le vie dell’immagine” sono le sue ultime fatiche artistiche. La prima è una silloge poetica mentre il secondo è un libro fotografico, lei stesso infatti si definisce “poeta e fotografo”. Quando è avvenuto il primo incontro con queste due arti? C’è una tra le due che considera più indispensabile nella sua vita? Se sì, quale?

“Il primo approccio alla fotografia risale alla mia infanzia, quando con un apparecchio a fuoco fisso, senza nessuna pretesa, fotografavo viaggiando con la mia famiglia; fu in quegli anni che visitando musei d’arte nelle varie capitali europee, acquisii un gusto personale, utile per inquadrare le foto. Nel 1981 avvenne il mio passaggio alla reflex e alle diapositive, con risultati più che soddisfacenti, anche per la qualità della mia macchina professionale CONTAX e per gli obiettivi ZEISS. Questo percorso analogico si conclude nel 2009, l’anno in cui fui costretto al digitale. La poesia pure nasce presto, in parallelo alla lettura intensiva dei classici, ma si interrompe intorno ai vent’anni, prevalendo l’interesse verso i miei studi storici, per riprendere dal 1993 fino a oggi. La capacità di osservazione come fotografo dei paesaggi, urbani e non, nonché delle persone incontrate, ha avuto molta influenza nell’elaborazione della mia poesia, al di là dei già importanti e imprescindibili elementi culturali e interiori e, a detta della critica, sia fotografia che poesia sono sempre andate avanti di pari passo, interconnettendosi, fino all’ultimo quinquennio quando ha prevalso nettamente la poesia. La mia fotografia, è quindi complementare alla mia poesia, in cui si riversano la mia esperienza di vita, la mia inquietudine, la profondità degli affetti, il lutto, or sono quindici anni, per la perdita precoce, tragica, della mia adorata figlia Fanny.”

Quale tra le poesie contenute ne “Il riverbero delle parole” sente più cara o rispecchia maggiormente il suo Io poetico e perché?

“Sento tutte le mie poesie come mie creature, mie figlie, ogni silloge (sedici dal 1998 a oggi) rappresenta le varie fasi della mia vita, a tutte sono egualmente legato, anche perché in trent’anni di produzione poetica, esprimo un diario innanzitutto dell’anima. Le radici, i luoghi, la natura, gli affetti entrano nel mio percorso poetico, ma su tutto, il vento, che domina il nostro vivere, come il mare. Credo che la sostanza del mio fare sia un invito a vivere con gioia le cose belle, in contrapposizione dialettica al dolore, al dramma della morte, che comunque sono il vero motore dell’esistenza e che inducono alla creatività e alla libertà. Sicuramente nelle mie poesie vi si legge un iter di maturazione anche verso tematiche storiche, sociali, religiose, ambientali, non solo, quindi, legato a ispirazioni introspettive e intimistiche, pur sempre universali. Ne “Il riverbero delle parole”, l’ultima poesia “Per i miei settanta…” è un bilancio esistenziale e rappresenta il mio attuale pensiero, il mio Io poetico.”

Quali sono i suoi punti di riferimento letterari? Quali autori l’hanno più influenzata a livello stilistico e perché?

“In primo luogo i Poemi omerici, quindi i Lirici greci, Catullo, Orazio per arrivare a Foscolo, Garcìa Lorca e Ungaretti. Anche, per la prosa, sempre a livello stilistico, Malaparte, Hemingway e de Saint-Exupéry. Il perché è legato proprio ai molteplici riverberi emotivi che questi classici universali mi hanno suscitato fin da ragazzo.”

“Le vie dell’immagine” è un mix di fotografie analogiche e digitali. Crede che l’avvento del digitale abbia portato solo miglioramenti alla fotografia oppure rimpiange la tecnica analogica?

“Come ho detto, a proposito della prima domanda, fui condizionato a passare al digitale nel 2009: costretto perché il miglior laboratorio della mia città, a cui mi ero quasi sempre rivolto per lo sviluppo delle diapositive, per il crollo della domanda, non rinnovava più con frequenza gli acidi per il necessario processo chimico, con risultati a dir poco disastrosi. L’ultima fase, quella dello sviluppo, come è noto, è infatti fondamentale per una diapositiva e senz’appello. In più diventava sempre più difficile acquistare rollini di diapositive Kodak, la pellicola professionale che quasi sempre avevo usato. La diapositiva per me rappresentava un prodotto finito già allo scatto, non si poteva sbagliare, e già ne conoscevo il risultato, buono non solo per il reportage, ma soprattutto per la fotografia creativa. Con l’apparecchio digitale, fin dall’inizio, con opportuni accorgimenti e tarature a priori, fotografando per lo più con priorità dei diaframmi, ho ottenuto ottimi risultati, senza mai arrivare al “Photoshop”, se non per regolare, quando necessario, la luminosità. Pur rimpiangendo la fotografia analogica, per una mia personale modalità di intendere la resa fotografica, basata sullo studio impressionistico della luce, finalizzata anche alla mia ricerca sui quattro elementi, il digitale, specie nel reportage e nelle precarie condizioni di luce, presenta
innumerevoli vantaggi, che non sto qui a dire tanto sono noti, su tutti quello di avere a disposizione un numero incredibile di scatti, pur fotografando io sempre in formato RAW, e nella stessa macchina molteplici pellicole, nonché quello di non dipendere dalla temperatura dell’ambiente circostante, nemico giurato delle diapositive: l’eccessivo freddo e il troppo caldo, tanto da essere sempre costretti alla borsa termica. Infine la fotografia digitale ha aperto da più di un decennio a quella concettuale, surreale, rielaborata a tavolino, per esempio quella del grande fotografo francese Michel Kirch, arte questa che dà risultati eccellenti, ma che non ha più niente a che fare col mio modo di intendere la fotografia, sempre soggettiva, ma al confronto, senz’altro più realistica.”

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