Interviste d’Autore – Ambretta Maria Vecchietti

“La scrittura è essenza e ragione di vita”. È questa la definizione che dà alla scrittura, che diviene per lei una madre a cui aggrapparsi e una figlia da accudire. La scrittura è stata presente in qualsiasi momento della sua vita oppure la sente più vicina in determinati periodi di gioia o dolore?

Scrittura come essenza e ragione di vita:

Essenza, perché è un istinto naturale, un’inclinazione spontanea, che mi porta – senza rifletterci – a vivere i momenti, gli eventi o i problemi, lasciando che la carta si scriva da sola;

Ragione, perché mi fa star bene, anche se scrivo di vicende dolorose. Se non lo faccio, sto male, mi sento incompleta, irrealizzata, tradisco me stessa, persino bugiarda, se taccio. Qualsiasi dolore o gioia prendono dimensioni accettabili, scrivendone (è catartica).

 Non è però una madre cui aggrapparmi: ho sempre dovuto ‘aggrapparmi’ a me stessa, non avendolo potuto fare con la madre vera, da cui mi sono sentita sempre non voluta e non amata (ma qui sarebbe troppo lungo parlarne);

Né una figlia da accudire (ho avuto un figlio vero su cui ho riversato tutto l’amore e le cure di cui sono stata capace, sacrificando volentieri il mio bisogno di scrivere per dedicare a lui tutto il mio tempo e credo, così, di essere stata la costruttiva presenza che a me era mancata: ho cercato di realizzare all’incontrario il modello di madre che mi era stato offerto).

In sostanza, la scrittura non è qualcosa di esterno a me: è una parte ‘carnale’ di me, non un rifugio in cui cercare forza, né un destinatario d’amore. È la mia stessa natura, il mio sangue, il mio respiro: non a caso, il fascicolo in cui raccolgo le poesie (ormai più di 200, di cui i tre quarti recenti) sulla copertina reca il titolo “Sangue mio”.

È stata presente fin da quando ho imparato a scrivere (mio padre è riuscito a salvare – prima che affogasse nelle acque melmose e distruttrici del Nilo di mia madre – il mio Mosè: ho ritrovato tra le sue carte alcuni temi delle elementari, in cui dialogavo col mio banco di scuola, seguendolo dalla bottega del falegname alla segheria e al bosco, in cui consolavo l’albero che piangeva per i rami che gli avevano portato via; in un altro, rincorrevo la pioggia che si assorbiva nella terra, nutriva i fiori e il grano, evaporava, tornava in una nuvola, per poi piovere nel mare e diventare salata: come le lacrime. In altri descrivevo come in un’autopsia un melograno e un grappolo d’uva fragola…).

Alle Medie, grazie anche ad un’insegnante sensibile e all’avanguardia, ho ingaggiato una gara mai finita nel descrivere nei minimi particolari ambienti e oggetti, visi ed espressioni, voci da interpretare, per svelare in parole quello che altri non vedevano; nel farmi domande e nel darmi le risposte; vedere ciò che c’è dietro, non accontentarmi delle apparenze, chiedermi sempre perché, senza mai fermarmi all’ovvio, per stanare ciò che viene nascosto, scavare per scovare le verità, brutte o belle… (“tra due percorsi, scegli sempre quello più difficile: quello facile lo fanno tutti, che soddisfazione ti può dare!”). Con lei ho imparato anche quanto sia importante scegliere le parole, tanto sono potenti o pericolose: “Voce dal sen fuggita, più richiamar non vale, non si trattien lo strale quando dall’arco uscì…”.

Al liceo, scrivevo ‘epilli’ in latino, che facevo leggere in segreto alla Prof.: lei mi correggeva qualche errore che ciclicamente ripetevo, confondendo un futuro con un congiuntivo (am/em, o suus con eius). Ma era il commento che aspettavo, su ciò che avevo scritto – non sul come – ed era gratificante.

Poi vennero i venerdì in TV (la TV educativa degli anni ‘50/’60, che tanto ha contribuito ad acculturare e unificare l’Italia, almeno nella lingua, più efficacemente di qualunque politica), con il teatro dei grandi classici e dei grandi interpreti e il sabato mattina, con gli occhi rossi di sonno portavo il frutto delle notturne rielaborazioni alla mia… confidente.

Ho continuato a non voler ricordare di quanti libri fossero composti gli Annales di Tacito o in che anno fosse nato Demostene, ma non ho perduto mai il contatto con il dramma delle coscienze, il conflitto tra la ragione e l’istinto, la pietà, il rimorso, le devianti manifestazioni dell’amore, l’odio o le ingiuste punizioni del Fato. I voti oscillavano per le traduzioni, ma quei commenti erano più importanti della pagella e quando non erano concordanti con le mie interpretazioni, mi stimolavano ad approfondire, fino a cambiare opinione.

Purtroppo, non ho più trovato quei quaderni: mia madre aveva conservato i libri di greco e di latino (“Con quello che costavano!”), anche se non potevano più essere utili, ma aveva gettato via quelli, senza dirmelo (È sempre stata diversa la scala di valori).

Qualsiasi stimolo (la bellezza di un tramonto, lucciole cadute come stelle nel grano, la distruzione di un terremoto o di un’alluvione, la morte di qualcuno, un’ingiustizia, un abbandono, la carezza umida di un cane, la scoperta di nuovi sentimenti, un addio, la perdita o il ritrovamento della speranza, l’amore perduto o ritrovato), tutto era scintilla per lasciarne traccia, in poesie, lettere, appunti. Ne ho ritrovati tanti, ma spesso illeggibili (purtroppo usavo biro Staedtler blu, dalle tracce ora sbiadite e piegavo in quattro o in otto i fogli, per nasconderli meglio e scrivevo con caratteri piccolissimi…).

Le poesie che ho salvato risalgono al 1962 (avevo 20 anni), quando ho dovuto lavorare per sopravvivere (non è il caso di parlarne qui, l’ho fatto altrove, nel lungo e sofferto lavoro di autoanalisi e nella purificazione trovata nella scrittura, nel romanzo che da due anni sta crescendo con me).

Lavoravo e studiavo Giurisprudenza – coi piedi per terra, ancorata al mondo dei diritti e dei doveri, alla giustizia sociale, al senso dello Stato, che mi hanno fatto sentire ‘cittadino’, parte attiva nella comunità – ma non ho mai abbandonato i sogni e i sentimenti: ho solo aggiunto ad essi l’impegno civile e politico; sono stata naturalmente sindacalista, per difendere i diritti dei più deboli. Poi il matrimonio, i lutti, le malattie degli anziani, il figlio, mille pesi e solo 4/5 ore di sonno per notte. Dall’87 si è aperto il lungo letargo della penna.

Sì, ho permesso che per me la vita fosse una vera tiranna. Ma il ‘fare’, spendendo energie per gli altri, non mi ha né spento né inaridito: mi ha solo distolto da quella segreta parte di me che è rimasta come ibernata, solo temporaneamente accantonata, per dare spazio a diverse priorità, in attesa di tempi migliori. Certo, resta il rammarico: bruciata la giovinezza, il buio della vecchiaia mi ha investito con i suoi limiti.

Ma non avevo avuto scelta. Chi avrebbe potuto e dovuto sostenermi nel coltivare quel talento, invece, vedeva la poesia come un’inutile perdita di tempo (e certo non avrebbe mai approvato di spenderci una lira per stamparle) e la musica come ‘rumore’, escludendo tutto ciò che dava spazio alla fantasia o al sentimento: accettava solo ciò che fosse razionale. Era meglio non entrare in un museo, se bisognava attraversarlo come in una maratona, senza poter sostare a crogiolarsi in un’emozione, per poter piangere con Van Gogh.

Così, seppure solo dalle 4 alle 7 del mattino, ho scritto per il diritto, con la mente, unica espressione di creatività approvata, sviluppando, però, tematiche appassionanti, come la salute mentale, i manicomi (erano gli anni di Basaglia), la libertà personale, i diritti sociali… (molti gli articoli apparsi su giornali di partito – il PRI, quando era una cosa seria e dava spazio anche alle idee dei sedicenni – o riviste come ‘Azione Nonviolenta’).

Poi, nel gennaio 2019, improvvisamente sono rimasta sola, dopo 57 anni, disorientata per molti mesi, in cerca di una diversa ragione di vita, finché, all’inizio dell’autunno, ho sentito scomparire la corazza che mi rivestiva e la capsula di legno che mi aveva tenuta compressa la testa (il volto dipinto di un totem piangente che nessuno adorava), sono uscita dall’orrendo bruco che mi imprigionava ed ho riscoperto nel cassetto le tante penne che mi aspettavano per farmi tornare a volare (alcune si erano stancate e si erano svuotate), ho fatto incetta di carta e il miracolo si è rinnovato: la vena non si era seccata. Era rimasta nascosta sotto un manto erboso ed è riemersa di colpo in un rivolo, all’inizio timido, chiaro e lento che poi si è allargato ed ora, da tre anni, non si è più fermato e dilaga in tante direzioni.

Il sogno e l’inconscio hanno alimentato la poesia. I ricordi, prima solo visivi, poi anche sonori, sono riemersi in racconti, su persone e fatti della mia vita (alcuni li ho aggregati per temi e sto per pubblicarli (forse usciranno prima di Natale. Se vuole, gliene posso mandare una copia). Ma non sono il meglio che potessi esprimere. (Mi accorgo che già oggi li scriverei diversamente).”

La pace e l’amore sono tematiche fondanti della sua poetica che ricorrono in varie vesti ma sempre avvolti da una leggera nota di speranza. Sono questi i sentimenti che vuole muovere nel lettore? Un invito alla positività e alla bellezza della vita?

La pace è legata alla mia scelta nonviolenta, nata dalla precoce lettura di Antiche come le montagne di Gandhi (1955), dai libri di Aldo Capitini e poi dalla sua diretta conoscenza (iscritta dal 1967 al Movimento Nonviolento per la Pace di Perugia, insieme a nuovi adepti abbiamo raccolto firme per l’abolizione della barbara pratica della vivisezione e per l’inserimento dell’obiezione al servizio militare nella Dichiarazione Universale dei Diritti e manifestato in ogni occasione contro le guerre). Ammirare ed amare Gino Strada e sostenere Emergency erano la naturale scelta di vita.  La pace rappresenta l’elemento essenziale in cui ogni essere umano può realizzarsi – fuori dalla desolazione della miseria generata dalle guerre – ed in cui soltanto la creatività, l’arte e il libero pensiero possono espandersi e nobilitare la razza umana.

L’amore (quel Proteo dalle mutevoli facce) è l’unica molla che genera l’energia che mantiene il ‘movimento’ nell’Universo e che, per definizione, non può morire (a-mors): se ciò avverrà, il mondo morirà con lui e ci sarà il buio eterno.

Ma entrambi non sono elementi che io voglio’ muovere nel lettore: non mi sento né un educatore, né un Demiurgo, né un convertitore. Scrivendo esprimo solo ciò che sento (tacere sarebbe come mentire), senza ambizioni pedagogiche o messianiche; non mi sono fatta mai condizionare o guidare dalle reazioni che posso suscitare.

Non è altro che un moto spontaneo dell’anima, che perseguo non per influenzare qualcuno o per determinare gli eventi. Semplicemente, lascio che emerga ciò che sono (un po’ la poesia-onesta di Saba?).

Scavo dentro e fuori di me, in cerca solo di verità nascoste. Questo sì, un imperativo categorico: non mentire mai, neppure a me stessa, senza calcolare l’effetto che farà sugli altri (sono stata sempre abituata ad essere considerata una minoranza scomoda e se, per essere ‘diversa’ dal routinario conformismo, vengo etichettata come ‘esagerata, troppo esigente, estremista, solitaria, rivoluzionaria, velleitaria o utopista’, ben venga la diversità: la mia.

Non ho mai cercato il consolante rifugio del numero per sentirmi protetta; anzi, più quello è grande, uniforme e coeso, più mi spaventa e ne rifuggo. Se dovessi scoprire di far parte di una maggioranza, mi spaventerei e forse me ne vergognerei. Ma soprattutto mi domanderei: “Che ti è successo?”.

“Leggera” nota di speranza: il singolo uomo e i Popoli hanno bisogno di sperare, altrimenti dovrebbero suicidarsi. Chi non ci riesce insegue inconsciamente la sua morte (l’alcolismo e la droga sono inconsapevoli ma chiari sintomi di ricerca dell’autodistruzione nei singoli, mentre i deliri di grandezza e le guerre lo sono per le masse).

Se i miei sono segnali solo ‘leggeri’ è perché spesso vengono a mancare motivi per sperare nel meglio. Ma, finché se ne intravede un barlume, si ha il dovere di alimentarla, spingendosi o spingendo a trovare modi costruttivi di stringersi in alleanze umane capaci di generare energie positive ed azioni benefiche che portino al sorriso.

Dopo ogni notte, torna sempre il giorno.

Non mi ero mai posta il quesito se la scrittura fosse “un invito alla positività della vita”.

Ripeto: non intendo invitare nessuno ad abbracciare le mie scelte (se succede, fuori della mia volontà, sono contenta di aver acceso qualche scintilla, ma è fuori dalle mie intenzioni: è solo un … effetto collaterale non perseguito). Semplicemente esprimo ciò che ‘sento’, che a volte percepisco soltanto come intuizione, senza capirlo forse fino in fondo. Ma non credo sia la positività che mi affascini.

Anzi, credo si possa vivere tutta la vita in una dimensione astratta, purché risponda alle esigenze dell’anima, sia che si tratti di fuga da una realtà troppo pesante e dolorosa, sia di una ricercata dimensione di equilibrio interiore, fatto di afflati istintivi che leghino spiriti simili, anche in assenza  di corpi che si incontrino. (Emily Dickinson si era negata al mondo esterno, ma cosa non ha creato nei suoi giardini!).

Forse può essere vista come uno dei volti della follia. Ma chi può dire cosa sia normale? Quello che fanno tutti o ciò che, pur difficile, fanno in pochi, pagando il prezzo della diversità?

Quanto alla “bellezza della vita”, non la identifico in un mero fatto estetico (Guernica è un concentrato di sangue, orrore e ingiustizie, ribellione e sconfitta: è un grido inascoltato. Ma chi può negarne la bellezza?). L’alito della vita è di per sé un mistero, di cui solo l’uomo dovrebbe essere in grado di apprezzare il valore e dovrebbe tenerlo stretto come un dono, unico e irripetibile, svelandolo a chi, incapace di apprezzarlo, lo calpesta. È così prezioso eppure così violato, negletto, offeso dall’ottusità, dall’odio, dall’indifferenza o dall’insensata violenza! Quando viene distrutto è un delitto dell’uomo contro la sua stessa umanità.

Perciò è un dovere difenderla: ci viene insegnato come un precetto divino, per dargli più autorevolezza, più forte della punizione terrena per un reato. Ma discernere tra il bene e il male è nell’innata etica dell’uomo: sono le sue scelte libere a determinare le azioni (morale eteronoma ed autonoma di Kant).”

Il silenzio, l’assenza di suono o rumore, sembra suscitare in lei forti emozioni. In quali momenti della sua vita “il silenzio” ha saputo parlare?

“Ci sono tanti diversi tipi di silenzio.

Silenzio forzato: Quello da me provato, nell’improvvisa e inaspettata solitudine fisica, era solo assenza di voci reali: ma in me si era mutato in un frastuono, come una tempesta che infuriava, una sovrapposizione di sibili intraducibili (quando si riavvolgeva velocemente un nastro, non c’erano più le parole, ma un indistinto rumore che lasciava interdetti, senza aggiunte, finché non si riusciva a riportarlo ad un funzionamento normale. Le voci, allora, si separavano, i rumori di fondo si azzeravano e si poteva di nuovo capire). Per mesi, i nastri del pregresso vissuto si sono vorticosamente intrecciati nella mia testa. Poi, la colonna sonora della mia vita si è fatta di nuovo chiara e mi sono accorta che in passato, anche se in mezzo a tanti esseri parlanti, pur sentendoci, non ci si ascoltava: quell’irreale rumore era reale silenzio.

Quasi subito, senza interruzioni, con la solitudine fisica imposta dal covid (che poi ho alimentato, quasi per tutelarmi dalle contaminazioni del mondo), è caduto un nuovo, più pesante, forzato silenzio esterno. Un distanziamento morale e materiale, che per un po’ si è tradotto in un insopportabile casco che stringeva le tempie.

Poi l’oppressione si è allentata: una liberazione. In quel vuoto, privo di disturbi, si sono fatte largo le mie voci interiori. Non sono stata più sola, da quando ho potuto sentire le domande che mi ponevo e finalmente anche le risposte che riuscivo a darmi. (Quasi senza accorgermene, spesso penso ad alta voce, sicura che io mi sto ascoltando).

È l’habitat ideale per entrare nel profondo di sé e potersi ascoltare. L’assenza di rumori esterni aiuta la concentrazione e la scrittura ne esce sicura (se i miei vicini accendono a tutto volume rimbombanti, ripetitivi, ipnotici e assordanti rap, la magia si interrompe. Tanto vale smettere e andare a cucinare: almeno i colori e gli aromi, gratificandomi i sensi, mi restituiranno una dimensione più concreta e umana, anche se l’ideazione si è frantumata).

Silenzio indotto: Posso ricordare almeno due situazioni, quando intorno c’era troppo rumore che mi feriva ignorandomi e cresceva intorno a me senza che ne facessi parte, in cui mi sono inventata il silenzio per salvarmi.

In sala travaglio e poi in sala parto, col training autogeno ho creato il vuoto necessario per concentrarmi: io, la ‘primipara attempata’ (34 anni), che avevo superato una minaccia d’aborto al sesto mese ed ero l’unica che voleva veramente quel figlio, dovevo in qualche modo azzerare le grida delle due diciottenni che non volevano più partorire, terrorizzate dalla paura del dolore e del futuro di madri, cui non erano preparate (cominciai a parlare a quel bambino che era ancora parte della mia carne: “Tranquillo, adesso facciamo vedere a tutti come si fa un figlio”). Con un atto di volontà, ho cancellato quelle urla e da quel silenzio evocato ho lasciato emergere solo la voce di quella creatura che mi avrebbe per sempre cambiato e riempito la vita. E appena me l’hanno fatto vedere, sereno, bello, pettinato, le manine strette a pugno, mi è sembrato mi dicesse: “Visto? Siamo stati bravi!”.

Dopo circa vent’anni, quando – per capire quanto ancora il mio cervello ‘in stand by’ funzionasse – mi sono cimentata in una tardiva esperienza di ‘studente’, mi sono trovata a dover dominare il ‘panico da inadeguatezza’, cancellando il vociare assordante, come di mille sciami di vespe, che saturava la piccola aula a semicerchio di tanti neolaureati, in cerca non di ‘sapere’, ma di titoli per una futura carriera. Solo ritrovando un fittizio silenzio, ho potuto far tornare la calma e la lucidità delle idee. Mentre tanta parte di loro era stata esclusa, risultai la seconda dei quaranta ammessi alla Scuola di specializzazione.

Per me, il silenzio non è mai vuoto, quanto l’insulso baccano di vite condotte per forza o per caso. Anzi, in esso ritrovo la giusta via in cui reincontrare me stessa, ogni volta che temo di essermi perduta.

Ma è il silenzio della notte quello più fertile e loquace, che mi tiene sveglia e mi impone di tradurlo in versi o in parole che si inseguono e spingono la mano sulla carta, anche al buio.

Da sempre (fin dal 1967) Art e Garfunkel mi avevano affascinato col loro ‘Sound of Silence’, (ispirandomi, oggi, le parole che ho inserito in ‘Ikaria – l’isola da cui i sogni possono prendere il volo’, il romanzo non ancora finito… Non usatele, finché sono inedite):

 “Silence, Sound, Poetry”.

“Quanti diversi sensi, valori o disvalori, può assumere il silenzio: da quello scientifico, studiato dall’acustica, a quello medico, inteso non come assenza di suoni, ma come percezione fondamentale del sistema uditivo; da quello dei mistici, degli artisti e dei poeti, a quello che parla in modo eloquente a persone legate da speciale empatia.

L’amara profezia, di quasi sessant’anni fa, di Paul Simon, fa del silenzio la dolorosa testimonianza dell’incomunicabilità, che separa gli uomini, così vuoti e deboli, da lasciarsi incantare dal lampo ipnotico di un tubo al neon, squallido strumento materiale, capace di ‘rompere’ il suono del silenzio e innestare un inutile ‘ciarlare’ tra persone incapaci di ‘parlare’ guardandosi negli occhi.

È un urlo dolente, inascoltato da genti alienate da sé e dall’altro, su cui le parole ‘cadono come gocce di pioggia silente’.

Onèira era stata colpita, in particolare, da un verso di quella poesia, tradotta in musica struggente:

disturba la musica il silenzio”.

Lei, che amava entrambi, si era chiesta: “chi disturba chi?”. Per lei i due suoni si integravano, in un continuo dialogo, si rincorrevano e accendevano, insieme, fuochi di ispirazione ai poeti.

Nel silenzio nasce e si libera la poesia – la poesia genera musica nell’anima – la musica dilaga e si espande nel silenzio – il silenzio apre le braccia – i versi inseguono le note – le note animano i versi e chi li leggerà, anche solo con gli occhi, sentirà intorno a sé la musica. Girotondo dell’anima, fervore creativo e silenzio poetico.

Se la poesia è già in te (il tuo alter ego), può covare per anni sotto la cenere senza spegnersi. Il rumore della vita può assopirla, ma mai annullarla. La sua memoria è involontaria. Sarà il vento del silenzio – la sua Musa dal mantello spiegato nel volo – a riaccenderla, sospingendola oltre il buio e le paure, accompagnerà chi la nutre in sé finché avrà respiro e non morirà con lui. Dal suo privato inconscio si eleverà, penetrando in quello collettivo.

La luce di una luna piena può colpire il tuo cuscino come un faro e impedirti di dormire, può far rimbalzare una parola sulla tua fronte, ne evocherà un’altra e un’altra ancora. Non aprirai gli occhi per non svegliarti del tutto e, al buio, tentoni, fermerai sulla carta, scrivendole tra un dito e l’altro, per ritrovarle al mattino, tracce sconnesse, sovrapposte – storte forse o frammenti chiari – che si uniranno in cerchio, ti danzeranno davanti, per poi placarsi e disporsi in un ordine che finalmente ‘suona’. Altre volte esce perfetta e non ci metti penna.

Nasce spesso così, dal caos. La mano, comandata da una forza senza nome, coglierà le parole nel buio della notte come fiori in un prato, scegliendo quelle da legare e quelle da tagliare. Infine, saranno gli occhi della mente a leggerle, come note su dei righi solo tuoi e le dita del cuore a provarle sulla sua tastiera. Allora ti fermi, le dai voce: è giusta quando ‘suona’.

Vanno in sincrono le due armonie: quando la musica è poesia, non disturba il rumore del silenzio. Solo quando il silenzio è vuoto, mortifica il poeta.

Ma quando il silenzio è pieno di gioia o di dolore, di noia o di stupore, di osceno o di candore, di sdegno o di rancore, scava spazi nel cuore da cui i versi aspettavano di uscire. Allora, basta uno sguardo dentro per parlare e l’anima vola, fino a toccar le stelle, sempre più su, tra spazi di galassie lontane e, quando ricadrà sugli umani, sarà una pioggia di annunci sottintesi.

Stai bene per star male. Stai male, per star bene. È questa la poesia che nasce dal silenzio ed è il suo rumore.”

In questo volume la conosciamo come scrittrice di poesie, ma lei si è impegnata nella vita anche in altri generi di scrittura che comprendono la sceneggiatura teatrale, saggi, racconti. Attraverso queste varie tipologie di scrittura fa emergere diversi aspetti della sua personalità?

Il giornalismoPrima che nascesse mio figlio, per più di due anni (1974/’75), avevo collaborato al Resto del Carlino, curando la cronaca culturale, e, con continuità, la rubrica ‘Finestra sul teatro’, per la pagina locale, quando il Lauro Rossi era sempre gremito per la stagione dell’ETI e le Rassegne delle compagnie amatoriali, gruppi che gareggiavano, da tutt’Italia, tra cui ben quattro della mia piccola provincia. Una di queste, il Gruppo TE.MA., mi ha sfidato (“In ogni critico teatrale si nasconde un attore fallito o un sognatore”) e sono stata catturata nel ruolo di ‘Varia’, nel Giardino dei ciliegi’ di Anton Čechov, non essendo nelle mie corde il talento procace per impersonare Polly, (in quegli anni tutti si modellavano su Strehler e, dopo la straripante Milva, chi avrebbe potuto emularla?).

Il teatro. Per loro ho redatto le ‘note di regia’ da inserire nei dépliant delle opere messe in scena, ma, dopo la nascita del figlio, mi sono limitata ad affiancarli: volevano rappresentare i tre atti unici di Pirandello (‘L’uomo dal fiore in bocca’, ‘Lo iettatore’ e ‘Cecè’), ma in modo nuovo, senza interruzioni, anche mentali. Ho creato sceneggiatura e dialoghi tra l’autore – nuovo personaggio unificante – e i protagonisti delle diverse storie, per dare continuità all’ironia più amara che viene dall’accettazione della morte imminente, a quella irridente della vendetta, fino a quella liberatoria della vera o finta idiozia.

Dal preliminare studio di Pirandello avevo tratto un breve saggio su ‘Umorismo e malinconia’, che sarebbe dovuto servire per una conferenza, che qualcosa mi impedì di fare e che è rimasto nel cassetto.

Il diritto. In seguito, senza uscire di casa, ho curato alcuni articoli sulla Rivista Italiana di Medicina Legale. Nell’83, rielaborando, sempre di notte, la tesi di una prima specializzazione, conseguita nell’81, ho pubblicato per i tipi di Giuffrè la monografia “Salute mentale e riforma sanitaria”.

Nell’88, partecipando al Convegno “Pasquale Stanislao Mancini: l’uomo lo studioso il politico”, tenutosi ad Ariano Irpino, ho redatto la relazione, pubblicata negli atti del Convegno, “Pena e restrizione della libertà personale tra diritti individuali e difesa sociale nell’opera di Mancini”, ed. Guida.

Le donne. Nel ’99 ho collaborato, col mio ricordo personale, all’antologia “Le donne raccontano il parto”, per i Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, nata per iniziativa del Forum cittadino delle donne.

Stanno per uscire, con diversi editori, due raccolte di racconti. La prima “Il futuro che ho avuto”, narrata in prima persona, ha come filo conduttore la morte (da 150 anni ad oggi): il passato che lega le sue radici al fluire del presente, per lanciarsi come un ponte verso il futuro e dare continuità a valori inalienabili, offrendo quelle ‘virtus’ antiche come strumenti di rinascita ad un’umanità disastrata, confusa, privata di valori fondanti, immiserita nel consumismo, avvolta nei falsi strumenti di comunicazione dei social, nella povertà del linguaggio che svilisce la lingua italiana, nell’assenza di consapevolezza storica e perciò incapace di guardare con lucidità al pericolo di disumanizzazione e di perdita di libertà, legati alla globalizzazione, oltre che del benessere raggiunto in quasi ottant’anni senza guerre in casa. L’altra, “L’Infiltrata”, narra, con affettuosa ironia, di una protagonista alla ricerca – dall’infanzia alla vecchiaia – della sua identità, che ha vissuto lottando sempre in salita, guardando di traverso il mondo, dentro una realtà che non le somigliava affatto, da cui finiva per discostarsi con disgusto o per essere emarginata ed espulsa, colpita, ma mai atterrata, per la sua diversità che disturbava il sistema e per aver tentato (spesso riuscendoci) di cambiare le regole dall’interno per ristabilire giustizia e verità.

Circa l’ultimo quesito: se dai vari tipi di scrittura, usati nei diversi generi, emergono differenti aspetti della mia personalità, credo che il giudizio non spetti a me. Sono ancora alla ricerca del mio vero ‘io’ (sempre che ce ne sia uno solo) e, se è vero che la conoscenza di sé non termina se non con la fine della vita, credo che la mia autoanalisi attraverso la scrittura non sarà mai finita. Certo è faticoso, in mezzo alle tempeste, ma ‘navigar m’è dolce in questo mare…’.

Posso dire solo che, dalla rilettura delle pagine vergate in vari tempi, emergono stili, scelte semantiche o strutture del periodo diversi, in doverosi, quanto spontanei adattamenti ai generi (privati o pubblici; prosa o poesia; scienza o fantasia).

 In varie parti di ‘Ikaria’ e in specie in un lungo capitolo ad hoc, ho esaminato a fondo che cos’è per me la scrittura (credo siano ormai più di 60 pagine in A4 e in carattere 12) a cui sono ormai pronta ad aggiungere una ‘coda’, resa edotta da esperienze maturate nei contatti con diverse Case Editrici (per fortuna ancora poche, nella giungla delle circa 800 esistenti in Italia); anche in questo ‘infiltrata’, per scoprire altarini o scheletri negli armadi.

 Non immaginavo, infatti, di dover conoscere fenomeni, non sempre legati alla concorrenza, come:

–      il ‘fumo’ delle precoci gratificazioni usate per allettare, come canti insidiosi di sirene;

–      gli autoincensamenti, tesi non tanto a promuovere opere di esordienti, ma se stessi, con più o meno evidenti operazioni di marketing;

–      o, peggio, gli striscianti sistemi di omologazione ad un solo stile o ad un ‘pensiero unico’: larvata censura perseguita per non disturbare, limitandosi a ‘galleggiare’ nelle acque stagnanti del conformismo e della mediocrità;

–      il politically correct, per soffocare idee troppo avanzate, che disturberebbero la quiete apparente. Insieme al covid, dilaga un morbo non meno letale: l’allineamento all’intolleranza del potere, che si spinge fino alla cancellazione di geni come Fëdor Dostoevskij;

–      il vile tentativo di sopprimere il pluralismo (sola garanzia di democrazia e di crescita anche nella cultura), per formare un inutile stuolo di ‘emergenti’ tutti simili tra loro, con vita breve, tra cui nessuno diventerà famoso, ma, intanto, tutti avranno finanziato la casa editrice, consentendole di sopravvivere;

–      i superficiali e meccanici criteri di verifica formale, mediante la ‘correzione’ (delegata all’uso standardizzato di ‘app’ nelle mani di non sempre acculturati e competenti editor), che, in realtà, si muta in sostanziale invasione e ingiuria non solo allo stile dell’autore, con regole non dettate certo dalla ‘Crusca’, ma anche ai contenuti del suo pensiero.

Quanto era più ammirevole il silenzioso correttore di bozze – che si poneva con umiltà e rispetto a fianco degli autori – di certi saccenti e presuntuosi ‘professionisti’, che salgono con ingiustificata superbia in cattedra (a 20/30 anni danno del ‘tu’, senza conoscerlo, a chi ne ha 80), per abbattere da subito le barriere e impunemente mortificarne la conoscenza e l’esperienza, imponendo presunte leggi che sanzionano come ‘errore’ quello che, invece (non violando nessuna regola grammaticale, sintattica o ortografica), appartiene allo stile personale dello scrittore; o abolendo la ‘maiuscola di rispetto’ per tutti indistintamente (dal ‘papa’ al ‘re’ o al ‘dalai lama’, fino al ‘presidente della repubblica’, che, quando, non seguiti dal nome proprio, rappresentano per antonomasia una determinata persona, in uno specifico luogo o tempo) ma conservandola solo per il ‘Duce’!

Sono microbi, che dimenticano che di Calvino, anche in Einaudi, ce n’è stato uno solo…

–      la fretta di riscuotere il cosiddetto ‘contributo spese’, a volte veramente esoso, costringendo l’autore ad investire somme elevate nell’acquisto di un numero rilevante di copie, che non può rivendere come privato alle librerie e che può solo riservare alle strenne di Natale più costose di sempre;

–      il privilegiare – ormai in controtendenza anche tra i giovani, almeno i più esigenti – il formato elettronico a quello cartaceo (che è tutt’altro che cretaceo!), semplificandosi la vita e l’organizzazione, ma aumentando la crisi delle librerie;

–      i ritardi o le dimenticanze degli adempimenti contrattuali;

–      la fatiscente attività di ‘promozione’ futura… E potrei continuare!

Il ‘Che’ nonviolento e libertario.

Sto pensando di farne uno scritto a sé: “L’Apologia dello scrittore”, che, mentre celebra la sua morte, reclama fino all’ultimo respiro la libertà del suo pensiero (sento montare la marea, che dovrò far straripare, per placare lo sdegno e per tenere sveglie le coscienze).

Ma il tempo davanti a me è breve e incerto. Non riuscirò certo a portare tutto a termine… “Dies certus an, incertus quando”.

La sua monografia “Sangue mio” è un Canzoniere che l’accompagna da tutta la vita e che al suo interno prevede anche un periodo di pausa che prende il titolo “Il silenzio – dal 1980 al 2018”. Quegli anni di silenzio a livello poetico come l’hanno cambiata? 

Sono stati anni pieni di impegni, dentro e fuori casa: il lavoro; crescere un figlio; convivere con persone anziane e curarle, per molti anni; assistere i genitori malati e poi quella rimasta sola; affiancare il marito nel suo lavoro, per alleggerirgli la fatica nella lunga malattia… Le ore del giorno non bastavano ad assolvere tutti i compiti, la presenza fisica e tutte le energie venivano concentrate su sempre gravi e nuove priorità. Con l’amore si fa tutto, ma a volte mi chiedo come ho fatto a non farmi spegnere. Ora posso rispondermi: non ubbidivo solo a un obbligo morale, non era un rigido senso del dovere. Dare la tua forza a chi ne ha più bisogno ti ripaga di ogni sacrificio: basta uno sguardo, una stretta di mano, un sorriso, senza dire quell’usurato ‘grazie’ che a volte umilia chi riceve. Era giusto e normale svolgere quei ruoli tutti insieme. Certo, ero stanca. Ma una parte di me si era come nascosta, per salvarsi. Senza intenzione, l’avevo messa in standby, non si era spenta. L’inconscio è un grande amico, lavora per anche quando non ci sei! Lo spazio emotivo segreto si è riempito così tanto, che, quando si è potuto liberare, è stato come aver tolto le paratie ad una diga troppo colma: si sono aperte le cateratte. Dovrò, forse, aspettarmi che, prima o poi, la furia di quell’acqua liberata si esaurirà da sola o si placherà in un lago tranquillo, in cui le idee e le emozioni si muoveranno più lentamente o che la morte arrivi all’improvviso, lasciandomi a metà del percorso. Quel lungo silenzio ha rappresentato solo l’impossibilità di esprimermi, ma la vita interiore continuava, covando sotto il livello visibile. Ma non mi ha cambiato. In me convivono tutte le mie età, confuse, pur con i miei compiuti 81 anni. Ci sono mattine che mi sento addosso 16 anni e mi faccio le treccine e delle sere in cui mi sento secoli di sale e pianto sul viso e cataste di legna sulla schiena. Ma poi compare un fiore inatteso sulla terrazza o una tortora che chiama dalla ringhiera: non fugge, non mi teme, perché sa che potrei volare insieme a lei, sostare appollaiata sull’antenna più alta, ad aspettare la sua compagna. E allora il tempo non ha più misura. In fondo, non gli ho mai permesso di scandire il ritmo della mia esistenza, aprendo o chiudendo le porte a modo suo. Non so tradurre in termini matematici la sintetica formula di Einstein, ma vedo il suo Spazio/Tempo in dimensione aperta e circolare, dove non c’è un inizio né una fine, ma solo particelle dirette verso l’infinito. Gli uomini, per organizzarsi, hanno inventato il tempo in linea retta, in due sole direzioni: indietro, verso un passato che non si ripete ed è ormai sfuggito e, avanti, verso un futuro che non esiste ancora e rimane sconosciuto, imprigionandosi, così, in un punto senza uscita, un triste, monotono presente. Meglio girare in un vortice, a spirale, cadere, anche e ricominciare su percorsi sempre nuovi o ritrovarsi su passi già compiuti e vivere sentimenti mai perduti, vedendoli in volti mai dimenticati. La vita ogni volta si rinnova e niente è mai finito.”

Il periodo “Il fiume in piena” vuole essere metafora della sua incessante necessità di scrittura? Come è cambiata la sua vita quando ha ripreso a scrivere?

Rimasta sola dopo 57 anni, vegetando, come disorientata, per mesi, ho finalmente imparato a interrogare quel silenzio, prima odiato – perché imposto da eventi non voluti o dall’isolamento da Covid – poi accettato per salvarmi dal morbo, poi finalmente apprezzato e gradito e, infine, difeso contro le intrusioni di ciò che non vale e non dà aggiunte. Come Emily Dickinson, “sarei stata sola senza la mia solitudine”, in cui ho ritrovato un mondo da vivere, cassetti pieni di matite ancora in grado di lasciare il segno e scaffali colmi di agende e risme di carta, che aspettavano di farsi riempire. Si sono incontrati con i miei pensieri, le mie lacrime e i miei sorrisi, si sono strette a me in un sodalizio che finirà solo con la morte del mio corpo o della mia mente. È un istinto ricorrente da placare, un bisogno impellente da soddisfare. Un’azione non cercata, né voluta, ma ‘necessitata’. Qualunque sia il momento o l’ora, devo scrivere quando in me si sveglia quella fame; devo afferrare subito ciò che nasce e preme dentro per non perderlo. E sto bene! Anche quando evoco ricordi amari o gli occhi e la schiena sono stanchi o la penna mi scivola di mano o il sonno evapora e non ho più il senso dell’ora che la sveglia sta per segnare: devo obbedire a quel Dio che domina le acque del pensiero. Chissà quali offerte i Romani portavano a Tritone, per aver domato il diluvio e fatto tornare i fiumi nei loro alvei e gli oceani sulle loro rive? Dovrò ringraziarlo anch’io, per avermi restituito alla mia sorgente!”

Nella copertina del suo libro vediamo una bellissima immagine di un (ermellino) colibrì, da lei desiderata per esprimere anche visivamente la sua arte. Quale significato ha per lei questo essere?

L’immagine di copertina, il colibrì, riflette il mio sogno di conservare l’idea della bellezza in un simbolo di leggerezza, quasi invisibile ai più: più piccolo del fiore su cui si posa, riesce a non pesare su nessuno. Non si mostra, per non farsi colpire. Il suo richiamo è sommesso, può coglierlo solo chi è molto attento e sensibile. Lieve è il suo battito d’ali, quanto quello di una libellula, per contrastare il rumore del mondo più lontano. È fragile, inerme, pochi grammi di piume colorate d’arcobaleno. Si nutre di poco ed è maestro d’armonia. Infine, è la poesia intitolata ‘Colibrì’, inviata senza molte speranze ad un vostro concorso, che sarebbe scaduto diversi mesi dopo, che invece è stata notata in redazione e ha innescato un’esplosione a catena: da ‘I Poeti di Via Margutta n. 47 a ‘Vie n. 39’, fino a quelle preziose ‘100 pagine tutte mie’ di ’Sangue mio’. Ormai il simbolo di un legame instaurato sommessamente con tanti di voi che pure non conosco ma sento vicini.”

Quale messaggio vuole trasmettere attraverso la sua poetica ai lettori?

Chi leggerà i miei versi spero abbia sofferto e riso, atteso e mai smesso di sperare e che si fermi un attimo, in silenzio, ad assaporare i colori, anche quelli cupi, della vita. Che sappia isolarsi dal chiasso insensato di folle che hanno smesso di ascoltare le proprie voci interiori. Che smetta di idolatrare il possesso, il consumo, lo sciupio di cose materiali. Che si allontani in tempo dai nuovi mostri, generati da intelligenze artificiali e che torni ad usare le sue uniche e inimitabili, anche se fragili, risorse. Che trovi un senso nelle ‘sue’ parole, le sole del cuore e della mente umana, che nessuna macchina saprà inventare come lui (come fidarsi di chi non ha coscienza e non sa né ridere, né piangere?). Che non insegua vanamente la ‘felicità’ come assenza dal dolore, ma lasci trionfare la sua umanità. Vivrà forse di meno: non è fatto d’acciaio, rame o silicone. Ma le sue lacrime sono vere e il suo sangue genera la vita. Se mi dicessero che, pur di non morire, potrei scambiare la mia vita con quella della mia gattina, accetterei volentieri: lei è dolce ed è ancora capace di sognare!”

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