Nella sua nota biografica dice di essere un “pervicace rappresentante dell’umana meravigliosa tragedia.” Può spiegarci meglio questa definizione che dà di sé stesso?
“L’umanità è mortale. Non c’è niente di più tragico. Si deve morire in vita per vivere davvero. Anche gli animali muoiono, ma noi sappiamo di dover morire. Il carattere dell’essere umano è la tragedia, ma non lacrimevole, patetica, e arresa. No. La tragedia umana è eroica, formidabile, meravigliosa, appunto. La stessa storia dell’umanità la si può leggere come un disperato e inesorabilmente fallimentare tentativo di emanciparsi da questa condizione, che è insieme causa e effetto di noi, della nostra bellezza, del nostro potenziale. Qualunque cosa facciamo, è infine perché moriamo. Di questo mi sento rappresentante, cioè uomo: vivo la mia tragedia di respiro in respiro, e proprio così sorrido della più grande felicità.”
Pur essendo molto giovane i suoi testi hanno un lessico e una forma molto ricercata. Qual è il suo modus scribendi? Tende a revisionare spesso le sue poesie dopo una prima stesura oppure nascono già nella forma definitiva?
“La lingua è una materia viva e palpitante: se si riesce ad impugnarla ogni suo battito e spasmo muove il sangue e smuove l’animo. Ma è anche un materiale impossibile e imprendibile, fatto di tutto quel che è l’umanità stessa. Pertanto qualunque volontà di controllo effettivo la uccide, mentre lasciarla libera di percorrere la realtà è follia distruttiva. Il processo poetico è il solo abbastanza forte e abbastanza
ambiguo per trattare e maneggiare il linguaggio interamente, e trasmutarlo in bellezza comprensibile. Le mie poesie sono tentativi a volte maldestri d’afferrare qualcosa di assoluto (vitale e mortale), inchiostrarlo alla bell’e meglio a renderlo presente, spesso solo per sentirlo guizzare e dimenarsi tra le lettere. È questo movimento che mi attraversa nelle suscitazioni più improvvise e significative, e io lo imprimo, lo premo, lo spremo, attento a qualunque fuoriuscita di senso. Scrivere è per me un pieno atto di forza, controversa e co-incidente, e m’è difficile da razionalizzare. Ma certo la poesia è un’arte, quella di «versare il mare in un
bicchiere» come la intendeva Italo Calvino, perché la lingua non è espressione del mondo, è un altro e lo stesso mondo. Le mie scelte artistiche – di lessico, formali, fonosimboliche, semantiche, sintattiche – seppur ragionate e proprie, sono quelle che in coscienza e sentimento mi sembrano più capaci di trattenere, per il tempo appena sufficiente ad assaporarlo e saperlo essere, quel mare. È un traboccare, dai bordi e di bocca in bocca; a volte va masticato a lungo, a volte già emana tutti i suoi umori. Ma la poesia è anche un artigianato, e mi impegno affinché la fattura sia la migliore a cominciare dalla migliore materia prima, e in particolare la sola che realizzi la differenza essenziale, quella linguistica: il termine nuovo suggestiona la lettura esattamente come quello usitato, ma i loro effetti vanno compresi, e quindi
manovrati. La parola è la comunicazione tra ciò che è diverso perché diverso, è un lingueggiare che non deve ottundere bensì esaltare la diversità, tra mondi, individui, verità, e renderla riconoscibile. Se la parola in poesia è la medesima che fuori dalla poesia, è dunque la sua lavorazione ad attuarla. Ogni aspetto di questo insieme mi dà piacere in medias res e so farlo soltanto così, nel corpo a corpo della pagina.”
Quando è nata questa passione per la scrittura poetica? Ricorda il momento in cui ha scritto la sua prima poesia?
“Ricordo il momento in cui ho letto la prima poesia sapendo o intuendo di leggere tutt’altro da quel che conoscevo: a diciotto anni, dopo molte letture tanto memorabili quanto spesso inconsapevoli, ho avuto tra le mani una bella edizione de La bufera e altro di Eugenio Montale. Nome ruggente, colossale, ma io ingenuo ne ignoravo ancora la vera importanza, universale, e poi personale. Così apersi una pagina a caso (non avendo nemmeno mai tenuto in mano un suo libro) e lessi “Personae Separatae”. Me ne innamorai perdutamente. Due anni dopo, passati in uno studio «matto e disperatissimo», in una palestra di esercizio letterario e sensitivo, la scintilla finalmente incendiò il combustibile che avevo tanto ardentemente preparato, infiammandomi spudorata: scrissi “Silhouette midollare”, anche per sdebitarmi, e poi “Dramatis
persona”, perché dopo un doveroso inchino volevo iniziare il mio spettacolo. Da allora brucio senza consumarmi. Imparai che vita e poesia sono combacianti.”
Ci sono autori che, più di altri, ha preso come modello sia per stile che per tematiche? Se sì, quali?
“Montale. E chi altri sennò. Ma quale Montale? Tutto il suo prisma. Ogni sua sfaccettatura. Ho frequentato tanto assiduamente i suoi versi da animarli nella mia interiorità, da farli parlare in me. E non smetterò mai. Montale è il mio maestro, l’archetipo del poeta, sempre diverso sempre nuovo sempre lui. Mi prende per mano, e sono accompagnato tra meraviglie. Questa sincera ammirazione giovanile – che voglio un domani maturi e venga sostituita se non da un rispetto reciproco, che sarebbe troppo, almeno da una giusta riconoscenza – comunque è anche devozione incondizionata: sono grato di leggere quest’uomo. Ho poi laboriosamente guadagnato l’accesso al suo strumentario: l’italiano di Montale è commovente e
in divenire, l’estro della sua scrittura, fatta di grinta e denti digrignati, lo riesce a eternare, è granitico al tatto, dirompente, poderoso. E anche Italo Calvino, che è un prosatore, o meglio un poeta intrinseco: la sua letteratura è meta-poetica. La sua prosa è la sola che riesce a smarginare, è un periodare fatto di tante poesie inanellate. Certo il mio bagaglio tiene tanti altri nomi che è oltraggioso anche solo pensare di postergare, così imprescindibili in questo mio viaggio, ma se devo sceglierne uno, lo faccio quasi con prepotenza, perché nessuno mi fa vibrare le vene come Montale.”