La stazione

Un racconto di Lemuele Burton:

Lo scrittore avanzò a fatica, lottando contro il vento gelido. Lungo il marciapiede sconnesso, seguì la recinzione di cemento che, rotta in più punti, mostrava l’anima di ferro arrugginito, e giunse alla piccola piazzetta antistante la stazione, illuminata da un solo fioco fanale. Il vento portava con sé rari fiocchi di neve, rubati dalle montagne vicine. Il tempo aveva quasi completamente cancellato il nome del paese dalla facciata della stazione, rendendolo indecifrabile. Non aveva importanza, ciò che contava era aver raggiunto la ferrovia.

Uno stretto passaggio ricavato tra l’intonaco scrostato delle pareti esterne dell’edificio e un giardinetto mal curato e bruciato dal gelo lo condusse lungo i binari, illuminati dal chiarore che proveniva da una stanza, forse la sala d’attesa. Il selciato era arrossato dalla ruggine, annerito dall’unto, ricoperto da un tappeto di foglie ingiallite che nessuno si era curato di spazzare.
Indugiò, lo scrittore. Si strinse un po’ più sul petto il giubbotto imbottito di pelliccia sintetica, si rammaricò dentro di sé di non aver indossato sciarpa e cappello, affondò nelle tasche le mani nude e si guardò intorno alla ricerca di un orario. Niente. Nessuna traccia di cartelli, né di addetti in grado di dargli qualche informazione.
Pochi passi, una maniglia consunta su una porta a vetri da tempo non pulita, un breve cigolio dei cardini e il tepore della sala lo accolse rassicurante. Richiuse in fretta per lasciar fuori il freddo, si stropicciò le mani e si guardò intorno. Le poltroncine erano vecchie, ma avevano un aspetto comodo. Nel complesso, l’ambiente gli apparve molto più piacevole e accogliente di quanto fosse lecito aspettarsi.
Un barbone dormiva in angolo. Bofonchiò qualcosa, disturbato dal rumore della porta, si spostò in una posizione più comoda, ma non si svegliò. Il viso era nascosto, piegato sul petto e coperto da un cappotto grigio, consunto, ma pulito, il capo protetto da una papalina di lana, il corpo rivestito di stracci, i piedi appoggiati sopra i suoi miseri averi: sacchetti da supermercato, uno zaino verde con ampi strappi fermati alla meglio con nastro adesivo da pacchi, due o tre bottiglie di plastica piene d’acqua. Il barbone russava, a tratti.
Mentre lo scrittore si era appena seduto, la porta si aprì di nuovo ed un uomo sulla quarantina, elegante, con il suo soprabito chiaro ed una valigetta di pelle marrone scura, entrò, con ostentata maleducazione, senza cedere il passo ad una donna, non giovane, ma ancora piacente che stava preparandosi ad entrare.
Andò a prendere posto senza scusarsi, né accennare il minimo gesto di saluto. Si tolse il soprabito, mostrando un completo blu scuro, una camicia bianca ed una cravatta dall’aspetto costoso. Pose soprabito e valigetta su due sedili diversi, si sedette su un terzo, prese il cellulare, digitò alcuni numeri, controllò il display, e irritato imprecò contro la mancanza di linea. Si rialzò, vagò per la sala spostando il telefono in varie direzioni, tornò verso la porta, quindi imprecò ancora, e si sedette accanto al suo soprabito piegato con cura.
La donna non diede a vedere di essere infastidita da tale comportamento, quasi come se la vita l’avesse addestrata ad essere trattata in tal modo. Sorrise con umiltà all’indirizzo dello scrittore che ricambiò con calore il sorriso, poi si accomodò due poltroncine più in là. Era vestita in modo semplice e non aveva neppure un filo di trucco s

 

ul viso, trascinava la sua valigia sopra un semplice carrello a due ruote.
Lo scrittore guardava a volte lei, con simpatia istintiva, a volte il barbone che aveva qualcosa di indefinibilmente strano.
“Ti incuriosisce William?” Chiese la donna.
“Lo conosci?”
Darsi del tu era stato naturale tra due persone che si sentivano simili.
“Diciamo che ci incontriamo ogni tanto. È una persona deliziosa, pulitissimo, passa delle ore a radersi, a lavarsi i denti e i capelli alle fontanelle pubbliche. Dorme sul sagrato di una chiesa sconsacrata e non ha mai dato noia a nessuno, se qualcuno gli dà qualcosa accetta e ringrazia, ma non chiede l’elemosina. È irlandese, raramente parla con qualcuno, solo con il suo amico John che solo lui riesce a vedere.”.
“Com’è che sai tante cose di lui?”
“Facciamo una vita simile, io e lui, anch’io dormo dove posso, mi lavo alle fontane pubbliche, il mio stipendio dipende dalla generosità dei passanti. Sono un’artista di strada, una statua vivente. Non è una vita facile, lo so, ma sono libera, non ho padroni, e se un giorno non mi va di lavorare, ne faccio a meno.”.
“Non dispiacerebbe neppure a me, avere il coraggio di fare una scelta come la tua, io faccio lo scrittore, o forse mi illudo soltanto di esserlo. Non trovo nessuno che pubblichi i miei lavori, non ci metto neppure una grande determinazione nel cercarlo. Stampo da solo i miei libri, da solo li vendo in sagre e mercatini. Vedi, un po’ sono anch’io un artista di strada, ma certo non potrei vivere solo di quello, così devo accettare un padrone e un lavoro così detto normale.”.
“Certe volte anch’io vorrei una vita normale, mi comincia a pesare l’esistenza da nomade che conduco. Però, non so se sarei felice.”
Il signore elegante e maleducato aveva rinunciato a telefonare, aveva estratto dalla valigetta un portatile e batteva sulla tastiera fermandosi di tanto in tanto a fare conti con una calcolatrice tascabile.
La porta della sala d’attesa si aprì di nuovo lasciando entrare una signora sulla cinquantina, cappotto di cammello con collo di pelliccia, borsetta di rettile, tacchi alti almeno dieci centimetri, labbra rosso scarlatto e occhi incorniciati da vari strati di ombretto.
“Brrr! Fa proprio freddo oggi!” disse aprendo il cappotto per lasciar vedere un vestito con ampia scollatura e gonna abbondantemente sopra il ginocchio. Aprì la borsetta, ne estrasse un pacchetto di sigarette, si guardò in giro per sceglier con cura il suo interlocutore privilegiato, e si avviò decisa verso l’elegante con telefonino e computer.
“Ha da accendere, per favore?” chiese sorridendo, con un tono di voce che voleva essere sensuale.
“Non fumo” L’uomo non si curò neppure di alzare lo sguardo dal computer per rispondere.
“Mi spiace, – disse lo scrittore quando la donna guardò verso di lui- non fumo neppure io.”. Il sorriso si era già spento sulla bocca della donna.
La statua vivente tirò fuori di tasca un accendino usa e getta e lo porse alla donna.
“Oh, grazie cara, ma non importa, ho ritrovato il mio.”. Sorrise prendendo dalla borsa di rettile un oggetto che pareva più un gioiello che non un accendino. Si accese la sigaretta, gettò fuori una nuvola di fumo e andò a sedersi un po’ isolata, mentre due grosse lacrime cominciavano a scenderle dagli occhi rigandole il viso di nero.
“Scusate, – disse tirando su con il naso- qualcuno ha, per caso, un fazzoletto di carta?”
Fu di nuovo la statua a porgergliene un pacchetto nuovo.
“Sapete, il freddo fuori, -si giustificò- o forse mi è andato un po’ di fumo negli occhi. Non è niente, passa subito.”
L’uomo con il computer prese dalla tasca del soprabito una gomma da masticare, la scartò e gettò la carta per terra. William aprì gli occhi, si alzò con una certa difficoltà, raccolse la carta e andò a gettarla in un cestino, poi tornò a sedersi. Bevve, quindi cominciò a parlottare a voce bassissima con qualcuno, invisibile a tutti che sedeva alla sua sinistra, talvolta ascoltava, sorrideva o ridacchiava apertamente, rispondeva al suo amico e ricominciava a sorridere.

 

La donna truccata adesso singhiozzava apertamente: “Ma quale freddo, ma che fumo, non so prendere in giro nemmeno me stessa. Piango. Piango perché sono una prostituta. Piango perché sto invecchiando, perché sento il tempo sfuggirmi dalle mani, perché non sono più desiderata e ricercata come lo ero fino a qualche anno fa”.

“Basta, sto lavorando, io! – Gridò l’uomo con il completo blu- Ho da fare cose importanti, io. Basta con questo chiacchiericcio, non posso concentrarmi, io. Devo fare grafici, preparare relazioni, studiare investimenti, clienti importanti mi aspettano. Invece di importunarmi con i vostri pettegolezzi, qualcuno si muova, e vada a cercare chi può darci informazioni su quando potremo partire, ho appuntamenti che contano, io. Non posso arrivare in ritardo!”
“Calma uomo, calma.”
La voce di William risuonò bassa e roca nella sala, con un forte accento anglosassone.

 

“Se tu sei qui,
in questa stazione,
insieme a noi,
vuol dire,
che anche tu,
uomo,
hai perduto l’ultimo treno.”

 

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