Intervista d’Autore – Maurizio Iori

Come si è avvicinato al mondo dell’arte e quali sono stati i primi passi della
sua carriera?
Il mio è un rapporto con l’Arte che parte da molto lontano, che ha preso avvio fin dall’infanzia, quando mio papà, pur con i suoi limitati studi, coglieva la necessità della dimensione artistica nella vita delle persone e mi accompagnava nei musei, in primis alla Pinacoteca di Brera, e mi aiutava nei lavori artistici scolastici. Questo “imprinting” ha fatto sì che elaborassi alcune abilità e sensibilità artistiche fino alla soglia dei vent’anni… qui il percorso si interruppe ed è trascorsa una intera vita lavorativa in ambito tutt’altro che artistico, prima che avessi l’occasione di riprendere in mano matita e pennelli… ed è accaduto quasi per caso. Ho quindi iniziato un percorso di formazione artistica, durato cinque anni, e terminato nel 2024, presso i corsi delle scuole libere dell’Accademia di Belle Arti di Brera. In questo ambito ho soprattutto maturato una mia “visione del fare arte” che è l’indispensabile filo conduttore del mio impegno attuale in ambito artistico e che mi ha permesso di partecipare alle prime mostre collettive.

Come reagisce alle interpretazioni che il pubblico dà alle sue opere? Preferisce che il significato sia aperto o ha un messaggio chiaro in mente? La mia personale visione circa le arti figurative è che l’opera d’arte, perché sia veramente tale, debba essere il più possibile “aperta” nei confronti del fruitore… È stata illuminante per me la famosa intervista a Michel Duchamp del 1957 a proposito di come lui interpretasse il “processo creativo”… Al pari di lui Bruno Munari e altri espressero con differenti parole i medesimi concetti. Sposo totalmente la visione di un’Arte che vede l’artista che, all’inizio del processo creativo, cerca di dare forma alla sua “intenzione”, ma che poi fa i conti con un “qualcosa” che ne orienta profondamente il risultato. È in questo “qualcosa…” che nasce e vive l’arte… è il famoso “gap” di duchampiana memoria, tra l’intenzione dell’artista e la percezione che invece ne riceve il fruitore: l’ampiezza di questo “gap”, che è figlio del caso (indotto in gran parte dal medium scelto) e del “non detto” (dire il meno possibile, solo l’essenziale), permette all’opera di aprirsi e di comunicare idee, emozioni, interpretazioni, in un dialogo totalmente personale tra artista e fruitore, che può addirittura annullare la barriera del tempo ed emozionare anche dopo cinquecento o mille anni anni… Quando, per citare un esempio, mi pongo in relazione con la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, avverto un fascino sottile, sento quest’opera parlarmi senza sapere esattamente che cosa mi dice… come in un sussurro, come di parole non dette… la sento risuonare di echi lontani come in un linguaggio che va direttamente al cuore, senza sapere come… sento che essa esprime esattamente la corretta visione sul modo e sul significato di “fare” arte, in ogni tempo, anche e forse
soprattutto, nella contemporaneità.

Come gestisce il rapporto tra spontaneità e pianificazione durante il processo creativo? Non opero per contingenza o per diletto e nemmeno perché in fondo “un soggetto vale l’altro”… tendo a dipingere paesaggi interiori per cui trovo raramente ispirazione dal riprodurre soggetti dalla visione retinica, semmai da questo traggo soltanto lo spunto iniziale… talvolta. Spesso i miei lavori che reputo più riusciti nascono dai resti di altri lavori che ho abbandonato nell’angolo dei fallimenti. Il più delle volte è il medium stesso, quasi sempre la cera da encausto associata a carta, garze e plexiglass, che mi dà il “la” per scavare, immaginare, far risuonare. Amo l’Informale, in particolare l’Action painting di Pollock e di Vedova, ma nel contempo sento il pericolo dell’arbitrarietà o del deja vu… Sono in parallelo attratto dalla composizione equilibrata di segni, forme e colori, ma temo la perdita di freschezza e di immediatezza… Ho tuttavia una regola su tutto ed è quella della “sincerità” dell’opera. L’Arte deve essere verità personale che scaturisce di getto dalla nostra interiorità dopo che essa ha elaborato immagini, suoni, emozioni, situazioni di vita vissuta…è questa sintesi interiore e quasi inconsapevole che cerco di far emergere e condividere attraverso il mio impegno artistico.

Se potesse collaborare con un artista di qualsiasi epoca, chi sceglierebbe e perché? Da bambino avevo una piccola immagine sul sussidiario, che ritraeva una figura di donna, probabilmente una domestica, abbigliata alla maniera di epoche passate, intenta e ben concentrata nel versare del latte in un recipiente… ero affascinato dai colori e dalla grazia di quella figura, e mi chiedevo se potesse esistere un quadro più bello al mondo… il nome del pittore lo imparai, poi lo dimenticai e infine lo ritrovai molti anni più tardi:
quel nome era Johannes Vermeer. Sicuramente oggi ci sono artisti che sento maggiormente di ispirazione per il mio lavoro, tuttavia un aspetto di lui non smette di colpirmi e ne fa di lui ai miei occhi un maestro inarrivabile: lui nelle sue opere di genere descrive piccoli scampoli di vita e lo fa proprio nei minimi particolari com’era costume allora, come lo hanno fatto in tanti senza andare oltre alla testimonianza storica… lui invece riesce a farci immaginare un intero paese, un’intera epoca, e l’eternità dei sentimenti che albergano dentro ogni persona. Proust di fronte a “Veduta di Delft” disse che quello era il paesaggio più bello che avesse mai visto… penso che ne sarebbe convinto anche oggi.

Premi invio per cercare o ESC per uscire