Intervista d’Autore – Elena Ferrari

Quali sono i suoi punti di riferimento letterari? Quali autori l’hanno più influenzata a livello stilistico e perché?
Fermo restando che ho ricevuto una formazione accademico-artistica assai rigida, questa ha ben poco a che vedere con la lettura, bensì con l’arte drammatica ma ho potuto imparare conoscenze trasversali dal punto di vista artistico, che hanno negli anni influenzato la mia produzione, anche a partire dalle letture fatte negli anni di questa mia formazione. Sono un’appassionata lettrice e amo spaziare, ma la scuola di teatro che ho frequentato mi ha insegnato che la prima regola da osservare, dovuta prima di tutto quale riguardo verso sé stessi, è quella di mantenersi più originali possibili. Le influenze vanno accolte sì, ma
con discernimento. Imitare non è più un obiettivo, o un canone, forse pur sempre potrebbe rappresentare un mezzo, ma non in senso pieno. Tuttavia se dovessi suggerire a un giovane poeta, come sono stata io, come “cominciare” gli potrei dire di non partire dai libri sulla tecnica, per non secolarizzarne o sterilizzarne il senso critico: una buona abitudine che ho sperimentato sulla mia pelle è che si impara sempre e solo facendo. Mettere le mani in pasta direttamente può rappresentare il primo passo,  cimentarsi viene prima ancora che non apprendere una tecnica e vale per tutti i mestieri, come lo è stato per me. A partire dall’atto pratico nascono infatti dei sani dubbi, domande che così potranno trovare risposta nella teoria, appunto. Ma senza una domanda non può esservi riscontro pratico. Le domande nascono dalla pratica, sempre che non si tratti di filosofia, o altre discipline puramente teoriche. Con tutto ciò intendo dire che i migliori autori possono essere utili ad incuriosire, sono da prediligere rispetto ai manuali di teoria, quindi, quale prima scelta da operare. Bisogna non aver fretta. E ritengo opportuno rivolgersi all’optimum. Credo di essere un’autrice ambiziosa e cerco la perfezione nell’arte, siccome la vita ne è priva. Pertanto, posso dire che la mia personale ricerca letteraria è partita dagli autori della Bibbia. La prima lettura che ne ho fatto risale al 2010 ed è stata integrale, l’ho fagocitata. Più è più volte. Da allora non ho mai smesso di ruminarla e leggere per me è diventata un’esperienza legata alla consapevolezza in più campi del sapere possibile e ho cominciato a sperimentare letture sempre di genere sacro poiché la spiritualità mi sembra il campo più elevato cui poter aspirare, come prima istanza. Ho anche fatto diversi pellegrinaggi nei migliori monasteri studiando l’ebraico per tutta la mia giovinezza e in quanto alla letteratura contemporanea no, non la leggo, è vero, fatta eccezione per qualche brano che mi capita sotto gli occhi per caso, magari sul giornale; temo molto il confronto, ho un carattere riservato e timido, anche se non sembrerebbe perché sono solare ed appunto la dimensione del nascondimento che permette essenzialmente la scrittura in sé e per sé per la caratteristica a questa connaturata di poter offrire un riparo dietro “quella” pagina mi fa sentire più al sicuro rispetto ad altre esperienze artistiche come è stata la recitazione per poco tempo, davvero. Con qualche rimpianto e ironia, se penso che avrei potuto fare l’attrice mi viene da ridere. Né avrei avuto abbastanza talento, comunque, né l’avrei voluto, ma è proprio vero, del resto, che ogni cosa appresa, possibilmente prima possibile nella vita, diventa frutto maturo all’atto pratico. Importanti bilanci che ho fatto in cuor mio nella vita mi sono serviti a fare il punto, numerose volte, quali esami di coscienza. Credo che dare uno sguardo dentro potrebbe essere tante volte utile, anche per ritornare a ricentrarsi. Comunque, sempre negli anni subito dopo la sfortunata conclusione degli studi accademici, non sfociati in carriera, per via di una malattia severa, ho cominciato a leggere l’opera omnia di Dante, partendo dalla Divina Commedia, di cui avevo imparato presso un corso di studi accademico il primo canto a memoria. Insomma, ho sempre puntato ai classici, agli antichi, agli archetipi, senza mezze misure e immergendomi avidamente sempre, anche per anni interi con una certa tenacia nel tempo, lungimiranza nello studio, affinando la capacità di assorbire, ma un testo singolo per volta. Se debbo affidarmi, meglio andare da chi potrebbe non destare incertezze in fatto di competenze! Ho cominciato a comporre a 23 anni in rime libere una prima raccolta, dedicata al mio primo amore. La raccolta si chiamava “Il nostro amore in frantumi” ed è rimasta in forma privata, forse sarà andata persa. Mi dispiace ma io non ne ho la copia. Fa parte del mistero della letteratura anche la storia cartacea di un povero libro, infatti. Questa caratteristica della perdita di una memoria che per me sarebbe stato importante conservare da qualche parte, la mia prima raccolta, è infatti semantica di un testo la cui essenza tematica è appunto la perdita nel senso più autentico. Visto che non ho più contatti con il giovane a cui l’ho dedicata non potrò mai sapere nulla di dove sia/siano. Il terzo riferimento che ho può considerarsi il Manzoni, che recitavo nel ruolo di Lucia a scuola durante le lezioni di italiano al ginnasio quando l’insegnante di italiano che mi ha avviata alla recitazione e mi spronava a leggere ad alta voce davanti alla classe. Ne ho un vivido ricordo. Poi, i libri rubati sul desco a mio padre: tutti i russi, con particolare attenzione a Dostoevskji. Ma devo gran parte del mio stile alle letture ad ampio raggio che ho fatto negli anni della mia formazione accademica alla Scuola di teatro di Bologna A. Galante Garrone, cui devo l’attenzione ai dettagli, alle meschinità umane e la compassione di fondo. La mediocrità trattata con salacità si presta a configurare il contenuto di qualunque componimento mordace ed è interessante dedicarsi alle piccole cattiverie, ai dettagli di poco conto, oppure ai gesti minimi ma importanti che possono fare da frammezzo fra una frase e l’altra in una conversazione, ma ci vuole un occhio ben allenato a cercare questo gusto speciale. Il sale della vita insomma è nascosto nelle piccole cose: banalmente, la mia poetica è fatta così. E sono io anche così, molto attenta, concentrata, acuta. Lucida, dicono. Nel bene e nel male. Gli autori teatrali che preferisco sono Pirandello, i nordici, Ibsen. Poi, però, il taglio filosofico un po’ idealista che ho è mutuato dalla mia passione per la filosofia, con un particolare occhio di riguardo rivolto a Wittgenstein. Questa mia passione risale alle prime letture liceali. Chi avesse un occhio allenato vedrebbe immediatamente. È stato amore subito anche fino alla messa in pratica cristiana. Considero la filosofia la quintessenza del sapere. Diffido però per indole di tutto ciò che è contemporaneo: come dicevo, sono così gelosa e orgogliosa di me e consapevole del dono prezioso che è il tempo a disposizione che prima di concedere spazio e dedicarmi ad una lettura che non sia evoluta ed estroversa come piacerebbe a me, intrattenimento puro, però come quello dei classici oppure  divertimento come sarebbe bello ma sottile e rispettoso, quale non si legge da tempo né si vede online e sui media… La letteratura è soggetta alla critica feroce che volutamente o meno il mondo manipolandola ne fa. Potrei solo dover essere certa di non sbagliare. Potrei essere solo alla ricerca di un consiglio di fiducia fidato. Quindi, anche se non sembrerebbe la contemporaneità mi affascina ma proprio per la sua precarietà ed ho una vera passione per i mezzi tecnologici. In effetti, solamente sono convinta che ogni mezzo culturale dovrebbe essere messo alla prova per un certo tempo prima di essere da me accettato e sperimentato. Il pubblico pagante commette abitualmente e bovinamente molti errori. Non voglio farmi schiacciare, mettere i piedi in testa, se non peggio, dalla novità di alcunché: se volessi spiegarmi meglio, direi che ad esempio non sono stata tra le prime ad aggiungermi a Facebook. Oggi Facebook è diventato una porcheria e hanno prevalso altri social. Credo sia sano da un lato avere il coraggio di osare e non rimanere indietro e sono indecisa, ma bruciare le tappe, ecco, non mi piacerebbe: tutto è giusto soggiaccia alla prova del tempo. Anche la letteratura. È crudele ma è così. Vale per ogni cosa. Ebbene, arrivando al dunque quale eccezione, direi che amo molto Mariangela Gualtieri, in fine. Lo ammetto. Può essere capitato appunto che una fonte di fiducia, una collega stimata e poetessa, mi avesse dato lo spunto di sperimentarne la lettura durante il mio soggiorno a Mantova e, infatti, non mi ha delusa.

Quale tra le poesie della raccolta sente più cara o rispecchia maggiormente il suo sé poetico e perché?

Quella dedicata a Elisabetta, mia figlia. Mi è stata sottratta in fasce già presso il reparto d’ostetricia al momento del parto. Lei sa solo che ho avuto una malattia. La posso frequentare solo due volte al mese. Ci amiamo tantissimo. È stato faticosissimo scrivere “Separate alla nascita.” È un’elegia, un lamento che ho scritto pensando ai Tragici, anch’essi parte del mio retroterra letterario. La trovo personalmente sobria, sentita, intima, vera, sottile, forte come è lei, come siamo noi. La amo particolarmente. È stata una conquista associare l’ispirazione al desiderio puramente razionale, quello che viene dal profondo del cuore anche al calcolo, con la grinta e urgenza di voler gridare fuori la verità su di noi e avrei voluto partorire questo poemetto molto prima. È stato il mio ultimo componimento, invece, anche se l’avevo tanto atteso!

I termini che sceglie di utilizzare nelle sue poesie sono ricercati e studiati oppure sono frutto dell’ispirazione del momento?

Sono frutto dell’ispirazione del momento, ma ritengo di avere un discreto vocabolario e una certa correttezza lessicale, anche se ci sarà sicuramente di meglio! La mia lingua scritta rispecchia pienamente il modo in cui parlo, si dice di me che io sappia parlare, per i miei modi disinibiti con un linguaggio discorsivo e fluido. In realtà, potrei parlare per ore e riesco bene, ad esempio nei colloqui di lavoro. Sono apprezzata per il mio linguaggio rispettoso e non offensivo. Non ricordo se io sia mai stata rifiutata presso un datore di lavoro. Penso di saper scegliere semplicemente bene ogni parola. Penso abbastanza rapidamente. Sono eloquente. Non amo lasciare nulla al caso. E sono altruista e generosa con la parola. Non saprei dire se i due aspetti linguistici dello scritto e parlato combacino sempre, in fatto di comunicazione, ma in comune potrebbero avere il pensiero e di certo quello che so è che il mio è un modo di pensare e quindi parlare e quindi scrivere abbastanza efficace. Solo, a volte per la mia malattia faccio dei salti logici nel ragionamento. Per iscritto, mi riservo di saper correggere questa tendenza grazie a una continua revisione attenta di ogni testo. Amo intrattenere. Ma raramente faccio amicizia. Sono piuttosto solitaria, selettiva. Devo dire anche senza troppi rimpianti. La solitudine è una dimensione che mi piace, anche se può diventare un’abitudine dannosa per la propria immagine. Fa diventare sensibili e irritabili, un po’ rustici e sognatori. Anche buffi a volte.

Qual è il sentimento che la spinge a scrivere poesie? Sente che la aiuta ad affrontare meglio i sentimenti e la vita quotidiana?

Ho molta grinta e grazie alla mia faccia tosta so di comunicare con la forza di una certa rabbia il mio ideale poetico solo grazie alla pagina, ma la volontà sarebbe quella di ricostruire una società in perdita dal punto di vista dell’inclusione, rispetto ad alcuni decenni orsono. La rabbia può essere un sentimento utile alla creazione. Non amo quando si osserva su di me che scrivere può essermi terapeutico, ma devo ammetterlo: anche se è semplicistico, siccome per me non si tratta proprio ancora di una professione a tutto tondo, bensì piuttosto di un’aspirazione ed hobby letterario, benvenga. Sì, scrivere aiuta. È quando ti senti più sopraffatto, a terra che scrivere infatti può riservare belle sorprese, in termini di risultato finale. Comunicare mi dà la sensazione di auto-affermarmi, anche prendermi qualche rivincita è già stato possibile, senza offesa per nessuno e mi rilassa, anche se questo ha un notevole prezzo da pagare in termini di accettazione da parte di amici e familiari, spesso in contrasto con le mie scelte di trattare temi non comuni, complicati e spesso scabrosi dal punto di vista sociale con una forza inaudita che so di avere solo in certi momenti sulla carta, quando è più pregnante il bisogno di uscire fuori dall’umiliazione,  sopraffazione e senso di inutilità. È molto difficile sottoporre il risultato del proprio impegno ad un pubblico, oltretutto. Fa soffrire entrare in contrasto aperto. Il mio compagno era contrariato anzi, è quasi riuscito a censurarmi o meglio: la sua reazione mi ha colpita proprio perché è stata forte. Non ricordo esattamente quale lettura in particolare, molte delle mie poesie credo, comunque, gli hanno creato un disagio così forte che per lui e, del resto anche mia mamma, accettare la sconfitta di vedersi ritratti così senza censura da me è stato un duro colpo ed ho scelto di mettermi in pausa. Accade regolarmente, è normale. Fa anche un po’ sorridere. Fanno muro. Come mettere in castigo uno scolaro che ha fatto un tema male. Recentemente, ad esempio, mi sono ritirata dai social, per questo stesso motivo. Pubblicavo di tutto ma ero in errore. Io ne sono solo felice, ottenere delle reazioni non è facile. Ma non si fa così, occorre avere molto tatto e prudenza. Nella vita ordinaria o quotidiana è possibile mettere una maschera, ma la carta è il luogo privilegiato dello smascheramento. Sto correggendo il tiro. I testi vanno bene espliciti, ma qualche premura è giusta. Quando non è lecito piacere a tutti, va bene, lo potrei anche accettare, allora sarei pronta a rivedere il mio stile. Non i contenuti. Se invece fossero questi ultimi a infastidire, in fondo sarebbe pur sempre un insuccesso immeritato: ogni argomento dovrebbe avere luogo, anche se minoritario, semmai fosse prezioso agli occhi di alcuno. La mia sofferenza è un dato di fatto, pertanto è mio compito orientarmi su scelte stilistiche che mi occupo di migliorare leggendo molti manuali di stile. Non sono disposta a cedere in quanto al mio rancore insomma: o lo butto fuori, oppure potrebbe distruggermi e se questo significa “esprimermi” senza per questo aver rispetto del lettore, questo sarebbe possibile pensarlo, se appunto non cercassi sempre la forma migliore di me. Lavorare su sé stessi significa appunto questo: l’espressione fine a sé stessa può, sì, portare alla riflessione, introspezione, nella ricerca di un’interazione che sappia diventare concretamente attiva, performante e rispettosa del lettore. Ma se mi accorgessi che la mia poesia avesse un interlocutore, anche immaginario, che potesse riuscire a sfiorare con parole anche piene di rancore e risentimento, d’accordo, sì, l’ammetto: sarei d’accordo e lo farei. Tutti i sentimenti dovrebbero avere quartiere. Non è sempre un problema dell’autore preoccuparsi dell’effetto, anzi, molte volte invertire questo senso logico è utile a chi scrive, la lbertà che offre la pagina, in fondo, è appunto quella di poter capovolgere il punto di vista, sentirsi protagonisti… liberi, proprio dove là, fuori, non si può, poiché la pagina è questo: un silenzio in ascolto in un luogo sicuro, una valle rassicurante e accogliente che può offrire la possibilità anche di divertirsi sanamente. È un po’ come mettersi a testa in giù, guardare il mondo al contrario: le idee fluiscono meglio quando si è un po’ più arbitri di sé stessi e ci si sa porre al centro. L’interlocutore, in tal caso può seguire meglio il discorso. Certamente mi preoccupo del linguaggio che uso. Ancor più mi impegno a elevarmi spiritualmente, come ho accennato poco fa, grazie alla messa in opera, lavorando le mie tematiche in modo tale da ammorbidire gli spigoli. La mia aspirazione più autentica sarebbe quella di restituire al lettore un’immagine più nobile possibile di contenuti che meritano davvero come quelli che mi caratterizzano e sono i miei, nulla da dire, non potrei esulare da essi, mi appartengono. Ma non sempre è facile e questo non può questa essere una scusa. Me ne rendo conto. Questo è il sunto, il senso della mia ricerca e il mio compito: farò del mio meglio per attutire le punte dei miei dardi…

Qual è il sentimento o il messaggio che desidera trasmettere al lettore attraverso le sue poesie?

Combatto per sensibilizzare l’opinione pubblica in fatto di accettazione della non pericolosità dei disagi psichici più comuni e a favore dei diritti di tutti, con particolare riferimento ai diversamente abili e genitori in difficoltà con assistenti sociali alle spalle. Non è semplice. Si tratta di un compito più grande di me e io non basto, ma intanto scrivere delle rime è già qualcosa. Spesso questi argomenti sono considerati di nicchia perché coinvolgono direttamente l’esperienza di una piccola parte di lettori ma è appunto mio preciso obiettivo, ammesso che questo fosse desiderabile, anche dare un po’ di materiale su cui riflettere a chiunque, anche a quanti hanno in cuor loro qualche piccolo pregiudizio e non lo sanno o dicono. Mi è stato anche detto da qualcuno di essi che sarei io la prima a stigmatizzare. A questi colgo l’occasione e rispondo apertamente che l’equilibrio è la migliore cosa. A mie spese so sicuramente che l’anima è una, ed è la stessa in dote a tutti poiché ogni anima s’assomiglia all’altra nella perfetta uguaglianza mentre le differenze derivano da comportamenti sociali, il giudizio non riguarda nessuno, la natura dell’uomo non è mai del tutto buona. Forse ognuno è portato semplicemente a orientarsi in base ad un principio di autodifesa che, fondamentalmente può creare alcune divisioni o versioni parziali della realtà ma, del resto, chi mi conosce sa quanto io sia profondamente critica e a tratti crudele nei confronti di me stessa, sempre pronta a migliorarmi e ottimista, costruttiva e alta la bandiera della dignità e dei diritti quindi sì, se fossi la prima a criticare sbaglierei, ma di rado sono arrivata a farlo e semmai l’avessi fatto, mi ritengo corretta ed ho l’arroganza di affermare che non parlo mai di nessuno alle spalle. Credo nell’assertività. Ritengo chi ha la tendenza a trarre conclusioni affrettate oppure a criticare semplicemente stupido. Mio padre mi ha insegnato a soprassedere ed essere sicura di me. Per quanto riguarda invece fatti di maggiore importanza, si tratta di questioni a parte. Il perdono non è cosa dovuta come alcuni credono, non va dato per scontato che una persona buona sia disponibile a perdonare senza prima aver superato il disagio a fronte di un danno grave dal punto di vista umano. È capitato anche a me. È più facile se sei un soggetto “fragile.” Ma l’obiettivo comune a tutti dovrebbe sempre essere la convivenza pacifica fra tutti, in tutti gli ambiti e settori della vita. I mezzi con cui praticare questa pace sono sotto gli occhi di tutti ma spesso il rifiuto la fa da padrone. “Sappiamo tutti che le merendine fanno male, ma noi le mangiamo?” Questa è ignoranza allo stato puro, non si può più delegare ad altri il compito di sopportare e ognuno dovrebbe fare la propria parte. Questa è una metafora per questioni di maggiore importanza ovviamente. Tuttavia, tornando a noi, il mio problema in quanto invalida è stato superato grazie a una buona dose di autoironia e anche al raggiungimento di un’età più consona alla cosiddetta maturità, per me cosa auspicabilissima. Gli oltraggi sono stati molti ma quando ti fai una corazza qualcosa di buono potrebbe anche accadere, ma mai abbassare la guardia in certi ambienti. Nemmeno per strada. Sono un po’ chiusa di carattere, ma il carattere è solo una parte dell’integrità di una donna.

Quanto e in che modo la sua vita privata, gli studi intrapresi e il suo lavoro influenzano la sua poetica?

Del tutto. Il mio scopo nella vita e vocazione dal punto di vista della produzione sono precisamente questi: trasformare la mia esperienza in creatività, attingendo con sincerità alle fonti autentiche che solo scavando all’interno posso fare da connessione con ciò che da sotto può esternarsi. La mia vita privata è la mia motivazione, vado alla ricerca di riscatto certamente mentre i miei studi grazie al cielo completati ne sono in funzione il mezzo e il mio lavoro rappresenta anch’esso un tramite necessario. Spero che la seconda parte della mia vita, la cui prima parte è andata completamente rovinata, si possa rivelare migliore. A proposito degli studi, ho completato il liceo a fatica a causa del mio secondo trasloco. Ho avuto una vita nomade, senza radici: da Bologna a Mantova, da giovanissima, poi a Bologna, poi a Mantova, a Modena infine a Bologna, dove abito ora. Molte esperienze, molta apertura mentale ma anche senso di perdita. Così, mi sento fortunatissima per quel pochissimo che sono riuscita a spigolare nonostante la mia inquieta ricerca e fuga da un forte vuoto emotivo che ho sempre avuto dentro sin dalla fine dell’amore tra i miei genitori. Da allora sono caratterizzata da un forte senso di disagio o meglio inquietudine, irrequietezza ed insoddisfazione rispetto alla realizzazione dei miei bisogni essenziali, come tutti i miei antenati Ferrari. Mio padre, appassionato raccoglitore di documentazione risalente a molti secoli fa, e attestanti fatti che hanno attraversato il tempo e sono arrivati a noi, mi ha raccontato che questo tratto è tipico di noi “Ferrari” di Mantova. L’errore più grave che ho fatto è stato quello di rivolgermi ad una scuola privata. Non mi vanto affatto di aver fatto spendere a mia madre molto denaro pur di mantenermi alle superiori insomma, ma avevo un fortissimo amore per lo studio e volevo diplomarmi a tutti i costi. I miei voti non erano sempre eccellenti ma il mio cuore batteva per gli autori che amavo e di cui ho un ricordo vivo. Il teatro è capitato, non mi aspettavo di superare il provino di specializzazione professionale alla Garrone ma così è stato. Poi la “depressione” ha spazzato via la ragazza promettente che vedevano tutti in me lasciando posto a una versione di me che però ha prodotto in me grazie al forte senso di rivalsa che ha fomentato una crisi religiosa e umana profonda che mi ha fatto trovare la fede.” Mi trovo a 37 anni ora, all’inizio della carriera professionale con una qualifica troppo specifica per lavorare e non sono di certo danarosa. Non vivo come un “di più” appartenere al cliché della poetessa squattrinata, anzi questo per me rappresenta un pensiero costante cui offrire presto una risposta. Ho un compagno che soffre per la mia condizione insieme a me. Una figlia di cui riconquistare la tutela che da tre anni vedo solo in forma protetta rare volte. Tanti obiettivi primari e compiti da realizzare, soddisfare. Sono in ritardo, anche se la società vive più a lungo e rispetto alla generazione precedente i tempi di avviamento alla carriera professionale si sono piuttosto allungati. Le mie competenze accademiche possono solo rappresentare un vantaggio a fronte dell’urgenza e necessità di costruirmi un futuro, dove io possibilmente potrei godere di maggiori certezze. Desidero fortemente una nostra normalità familiare, in un contesto dove potermi concedere qualche pausa, premio, sfizio. Mi sto dando molto da fare su tutti i fronti per scrivere. Non ho mai vissuto veramente: nel 2017 sono stata insensatamente ricoverata per 10 mesi in un reparto, in una cra. Oggi ho una famiglia, un lavoro, delle relazioni, che bisogno ci fosse, rimarrà un mistero, quell’esperienza che ricordo come una spina nel fianco ha solo potuto ritardare i tempi della mia realizzazione e generare problematiche aggiuntive, anche a spese di mia figlia, che compirà 6 anni a settembre ed è stata allontanata da me in quella fase complicata della vita, fortunatamente superata alla stragrande. L’instabilità può essere affrontata alla mia età grazie al lavoro sodo, prima di tutto letterario, ma ci vuole molto coraggio. La diagnosi che mi avevano dato nemmeno era compatibile con certe possibilità concrete che, al contrario, ho potuto sorreggere realizzando in tempi record la mia autonomia. In realtà, oggigiorno si va tutti alla ricerca di un’immagine che possa contrassegnare quali “esseri speciali” o “diversi” ma questa cultura è dimentica di ciò che significa veramente esserlo, per chi lo vive espressamente sulla pelle, il senso della diversità. Non è appagante essere speciali e diversi. Ha un prezzo molto alto l’originalità, per qualcuno anche la bizzarria. Il carisma è tutt’altra cosa e viene da dentro. Bisognerebbe fare più attenzione a fare l’affermazione che “io sono diverso” equivale a un “vantaggio” fantomatico o propugnare ai giovani questa cultura perché è assolutamente insipiente pensare che speciale sia “bello” in quanto chi è davvero “speciale” sa quanto sia grave il peso da portare per chiamarsi tali. È da veri ignoranti desiderare di distinguersi per qualche qualità interiore, fortunatamente gli uomini nella natura del loro cuore e valore sono tutti uguali. Non è appiattimento, solo la constatazione che l’ambizione, competizione, arrivismo che derivano da tutta la frustrazione che sottende “quel” luogo comune che andrebbe bandito non è affatto qualificante. E la mancanza di solidarietà mette a dura prova universalmente uomini e donne ma, in fondo, forse si tratta di una forma mentis perfettamente obsoleta e nemmeno lo so. Il vero dilemma è come convivere bene cioè come condividere esperienze comuni a tutti in tempi ed età diverse. Comunque, il vantaggio di aver vissuto tutto ciò in 37 anni è che ho imparato a godere dei piccoli piaceri della vita.

La poesia di incipit presente in questa collana possiamo ritenerla un manifesto della sua poetica? Perché ha ritenuto importante che fosse la prima?

Agli occhi di chi avesse letto “Più io m’innamoro” potrebbe sembrare che questa poesia non sia rappresentativa di una raccolta poetica caratterizzata da una pars destruens che è più “thanatos” che non “eros”, quando invece “Più io m’innamoro” parla, invece, appunto, d’amore. Ho tirato davvero fuori la parte peggiore di me, il lato oscuro, in questa fetta di componimenti. In realtà questo componimento ad uno sguardo più attento è davvero il manifesto della mia poetica, non solo la fotografia di un momento, dello scambio fugace di due complici e amanti che si rasserenano assieme. Infatti, è un mix di oscurità e luce, un chiaroscuro ma a lame taglienti che filtrano l’oscurità fugaci e improvvise come fulmini, perché quel sorriso descritto di lui, e quella pace hanno un prima e un dopo, che si possono a malapena intravvedere. Insomma, ho sempre sognato di scrivere d’Amore. Sono una romanticona. Ma il soggetto è avvincente proprio perché è l’assenza d’amore ad essere eletta quale forma più sublime dell’amore stesso intoccabile, in una dinamica di saliscendi che fa trapelare solo inquetudine ed oscurità. Il superamento di queste nella poesia rappresenta la vetta ed è così in questo senso che “Più io m’innamoro” può essere davvero un manifesto: come ho detto, io so di essere le mie aspirazioni, l’aspirazione di questi due amanti nella poesia che sono due parti di me (me e il mio compagno, infatti) è l’amore nella sua efferata ed esacerbata ricerca, e quindi io sono amore allo stato puro, non privo di tutte le sfaccettature e le complessità che nel tempo di questa lettura e tra le righe di questa poesia possono offrire un panorama di difficoltà oltre le quali andare è possibile, non senza una certa dose di sofferenza e quindi l’amore si può considerare il sentimento che prediligo. Aspiro a scrivere d’amore. Questa, sebbene sia una delle poche rime mie sull’amore, è un possibile manifesto.

Quali sono i suoi progetti futuri come scrittore? Attualmente sta scrivendo?

Sì. Mi stavo occupando di un romanzetto bellico sui soliti temi sociali ma l’ho messo da parte per il momento. Sto cominciando ora a scrivere la prima bruttacopia di un manualetto di rottura rispetto ai miei lavori precedenti, sulle pulizie domestiche. È simpatico ma ho concluso un primo periodo di apprendistato come domestica presso appartamenti per inserirmi lavorativamente a Bologna, ora, come commessa in un centro commerciale, presso il negozio di calzature della sede. È un lavoro stimolante. Abbiamo appena traslocato e mi piacerebbe fare un sunto delle mie esperienze, emblematiche davvero poiché hanno significato per me una vera “repulisti emotiva,” in prima battuta per le disgrazie attraversate! È un toccasana fare le pulizie domestiche a piede libero, sentendosi accolti e a casa presso delle famiglie cordiali e accoglienti che hanno modo pure di farmi sentire utile. Grazie alla pratica delle pulizie e dell’ordine ho davvero fatto spazio, archiviato, messo ordine nei pensieri e nella vita, senza nemmeno accorgermene. Penso che i giapponesi tradizionalmente potrebbero già averlo scritto, come è risaputo, in qualche trattato: una rinfrescata ai vetri farà sempre bene e io non sono da meno, perché non accodarmi alla maniera orientale? Oggi guardo a un futuro nuovo, ancora tutto da inventare. Sono una donna molto positiva e determinata. Ciò che penso è che un invalido varrebbe doppio semmai riuscisse a realizzarsi ed è questo che mi sprona a dare il meglio di me, quando scrivo o lavoro. Si dovrebbe scrivere sul braccio ognuno di noi che “categoria protetta” non è sinonimo di “abbandono” bensì di “specie in estinzione,” nel senso più protettivo del termine. Andiamo protetti. Ma solo grazie all’impegno e dignità, anche ad un sano menefreghismo verso chi non merita poiché la sensibilità va premiata, ma occorrerà essere i primi a farsi carico della responsabilità che comporta essere chiamati quali creature dotate di requisiti speciali, quali siamo. Ci vuole autostima e credere in sé stessi. La riuscita da parte di un invalido per lui è segno di doppio, triplo, quadruplo valore. Fortunatamente ho sperimentato sulla mia pelle che la fatica del lavoro quotidiano, innanzitutto in quanto all’impegno per la scrittura è davvero il lasciapassare per la libertà e vale la pena imporsi una buona dose di spirito di sacrificio ed intraprendere una sana carriera a tutti i costi, sofferenti o meno. Buttarsi a capofitto in un’avventura professionale può essere una strada efficace che prelude alla libertà economica, garanzia per chi come me ha la necessità di affrancarsi, anche da un certo stigma sociale. Ma ci vuole coraggio, determinazione e molte qualità etiche e professionali ed umiltà.

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