Cesare Pavese rappresenta, forse più di tutti, l’emblema dell’intellettuale solo.
Spesso considerato depresso e triste: alcuni dei suoi scritti però fanno trapelare un Pavese quasi inedito ai più, con uno spiccato e tagliente senso dell’umorismo.
A differenza di altri scrittori come Italo Calvino e Fenoglio, non militò nella Resistenza: per questa “macchia” il mondo della cultura lo tenne molto spesso in disparte.
Fu grande appassionato della cultura e letteratura americana (la sua tesi ebbe come argomento la poetica di Whitman) tanto da diventare uno dei primi traduttori dall’inglese: si occupò anche della traduzione italiana di Moby Dick.
Nel suo diario “Il mestiere di vivere” ci sono molte allusioni al disagio esistenziale che lo portò alla scelta di morire suicida il 27 agosto del 1950 in un albergo di Torino.
I suoi ultimi scritti recitano: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.» All’interno del libro c’erano vergate anche altre tre frasi: «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia», una dal proprio diario, «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti», e «Ho cercato me stesso».