LA VITA SEMPLICE ABBRACCIA LA MORTE E LA SCONFIGGE RISORGENDO NELL’AMORE
L’opera in prosa e versi dell’autrice Manuela Zen è una accorata e accurata ricerca esistenziale dell’essere e del non essere, con un profondo interrogativo interiore sul significato del vivere ed anche del morire. Il messaggio principale, innovativo e geniale narra che: “La vita deve abbracciare la morte per sconfiggerla, privarla di significato e di forza, per essere davvero vita”. Diversi personaggi e diversi versi mostrano un profondo tormento: “Chi sono?/Chi sei?/Voci del verbo/–essere chi?–.Non possediamo/alcunché,/solo frammenti/di un’identità./Serve un collante/a tenerli insieme,/prima che scivoliamo/fuori da ogni realtà” (“Chi?”). I protagonisti dei racconti: “La bambola blu”, “Ezechia”, “Lena”, “Thia”, “Anat” non sono altro che facce di una stessa medaglia. Il confine tra Eros e Thanatos è sottile, come quello tra Mors e Vita e la poetessa li abbraccia entrambi e indistintamente senza paura. “La bambola blu” è allora il simbolo dell’intera opera: un’eroina in grado di esorcizzare i demoni con la sua semplicità. Incredibile! Proprio lei riesce a trasformare l’inespressività, il corpo vuoto, l’immagine e l’essere “pura forma” imposto dal mondo, nella forza che scaccia il male. La poetessa e le sue parole non hanno paura di morire, però in maniera dissacrante, purificatrice ed esorcizzante, chiedono almeno di scegliere “come”, in “Euthanasia Coaster: le montagne russe con la morte inclusa nel prezzo del biglietto”. Affrontare la morte con coraggio e ironia, dissacrandola, deprivandola della sua forza e costringerla così ad andare via. MORS MEA diventa VITA MEA. La bambola cammina cammina, Lena scava e scava e cosa trovano? Corpi senza vita ammassati, bambole inespressive. E il contenuto dov’è? Esso è il segreto finale di Manuela, ciò che unificherà tutto. Una poesia programmatica ce lo indica: “Quanto più l’età mi avvicina/a quella che tu fosti, mamma,/tanto più mi rendo conto/di non aver mai saputo/chi tu veramente fossi./Non l’ho mai capito,/non ho saputo incontrarti,/non mi sono data il tempo./Tu c’eri già da prima,/eri quasi ingombrante./Eri la roccia di riferimento;/ma anche quella contro cui/mi sfracellavo inevitabilmente./Quella che dava accoglienza/senza perdonare però/il più piccolo cedimento./Forse ti ho perdonata;/ma solo quando/hai cominciato a romperti,/quando ti sei permessa/di apparire fragile/e diventare umana./Non potevo esserlo/prima, neppure io,/perché non lo eri tu:/dovevo essere dura/e inattaccabile come te./Quando hai cominciato/a mangiare dalla mia mano,/la tua vita sembrava/dipendere da me./Ho capito allora di essere forte,/non mi serviva più essere dura/perché tu non avevi più bisogno/di esserlo per me”. (“Pietre dure”). Dolcezza, Amore pietoso e Amore Caritas. La pietra dura si ammorbidisce e si apre come uno scrigno e il tesoro al suo interno è proprio lui l’Amore. Non il “sogno” impossibile della “Bambola blu”, ma la vita concreta. Manuela ci descrive, in ordine sparso e in diverse sfaccettature, tutte le fasi (anche le più tormentate e cruente) di questo cammino che in fondo è lo stesso percorso del Cristo. Il suo corpo morto affronta e vince la Morte e miracolosamente rinasce e risorge nell’Amore. Tutto con semplicità, non un transatlantico e una imbarcazione elaborata e tecnologica riescono ad attraversare quest’oceano ma un povera barca, costruita con diverso legname. E allora tutto acquista un senso, ogni personaggio trova la sua identità, non più MORS, non più VITA, ma solo AMOR: “Non è,/e non sarà mai,/uno spreco l’amarti;/è una minima cosa/senza ragioni sufficienti,/senza motivi validi,/concreti o permanenti./Ti amo/e l’amore stesso/diventa la ragione/del proprio significato./Ti amo perché ti amo” (“Chi”).