IGNAZIA VARGIU

L’AMORE E LA FORZA DI UNA TERRA CHE GENERA UNA POETESSA

Per fornire una chiave di lettura all’opera poetica di Ignazia Vargiu, non possono esserci parole più adatte, di quelle che 93 anni fa, nella gelida Stoccolma, la calda voce di una minuta donna italiana scandì in un discorso memorabile, quello di ringraziamento per il Premio Nobel. L’unica donna italiana ad aver vinto il nobel per la letteratura, la conterranea e maestra d’arte dell’autrice, Grazia Deledda: “Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è poeta. Senza vanità anche a me è capitato così…Ho vissuto coi venti, coi boschi, Con le montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo.” (“Discorso di Grazia Deledda al Premio Nobel”). Se ci soffermiamo a leggere la biografia introduttiva di Ignazia, troviamo quasi le stesse parole: “Ignazia Vargiu nasce nella borgata di Santa Margherita, frazione del Comune di Pula. Ultima di cinque figli di una famiglia molto umile, il padre Francesco era pastore e la madre Greca casalinga. Ignazia trascorre gran parte dell’infanzia nelle campagne, con il padre che gli racconta mattina e sera favole inventate sul momento: quei racconti sono un toccasana per lo sviluppo della fantasia di Ignazia bambina, inoltre il contatto con la natura influisce molto sulla sua sensibilità verso i suoi suoni del vento attraverso le foglie, le diverse fragranze, il gorgoglio dei fiumi e dei ruscelli, e di tutta la macchia mediterranea. Lei apprezza della natura ogni forma dalla più piccola alla più maestosa. I genitori le insegnano tanto della amata Sardegna e dei suoi abitanti, gli aneddoti, la povertà del periodo in cui vissero da giovani, le credenze popolari, gli spiriti che girovagavano nel loro basso Sulcis Iglesiente” (“L’artista Ignazia Vargiu”). Questo incredibile ambiente sardo: agropastorale, naturale, selvaggio, antico, isolano, fatto di vento, di mare, di montagna, di campagna, di storie, di leggende, del susseguirsi delle stagioni, di animali, è il “locus” dove si genera la poesia, da cui essa ha avuto origine e che è per un certo verso è esso stesso poesia. Troviamo passi piuttosto espliciti a riguardo: “L’odore della polvere mista a fiori di montagna/mille e mille impronte indelebili lascia il gregge…/Il pastore le chiama/per nome, solleva il bastone di ferula e fischia/loro ubbidiscono, il custode le conduce verso distese/di stoppie sino al sorger della luna…./Un solo fischio/ritorna il gregge a belare, sa di tornare sotto le frasche/dove s’intravedono le stelle, per godere della quiete/sotto il respiro della notte, sino all’aurora del nuovo dì.” (“Il gregge”). E ne troviamo anche apparentemente meno espliciti, come quando partendo da una tematica amorosa, l’autrice si serve poi di calzanti elementi del “locus” citato come il mare e il mosto: “Come posso arginare il fiume in piena/Se tu continui a irrompere nei miei sogni…./Come posso arginare il mare con le mie sole mani/se il mare mi trasporta da te e divento una conchiglia…/Dimmi come posso/non amarti più, perché l’unica cosa che posso e/faccio da troppo tempo è ubriacarmi/di te, come un vecchio calabrone/ispido e imbevuto di mosto dentro al torchio” (“Come posso arginare il mare”). L’ambiente agreste fa assumere alla ricerca dell’Amore, inediti toni primitivi e selvaggi: “Se tu, non fossi sfuggente/come un falco nel cielo selvaggio,/non fossi evanescente/e impalpabile come il vento./Io ti catturerei./ L’amore mio è gitano,/ama la cattura/la noia, la consuetudine,/ucciderebbero l’attimo.” (“Cattura”). Come Grazia Deledda anche Ignazia Vargiu è andata poi a stabilirsi in un altro paese. Pur vivendo con una inevitabile nostalgia definibile come “Mal di Sardegna”, l’autrice riesce a colmare il vuoto con un metodo: guardare e parlare al cielo, come quando accompagnava il padre pastore: “Parlare al cielo che mi guarda/ovunque io sia è quel che amo di più./ha il gusto i milioni di sapori e dell’infinito./Anche se non lo raggiungerò mai/posso sognare viaggiare andare tornare indisturbata.” (“Il gusto di parlare al cielo”). Di nuovo, si possono citare le parole della maestra: “Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza. Avrò tra poco vent’anni, a trenta voglio avere raggiunto il mio sogno radioso quale è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda. Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali.” (Grazia Deledda). Similmente l’autrice: “Quando la stessa (maestra) racconta a tutta la classe la storia di Grazia Deledda, e chiede ai suoi alunni di disegnare il ritratto della scrittrice, Ignazia esclama a bassa voce che sarebbe diventata una anche lei scrittrice” (“L’artista Ignazia Vargiu”). La poesia è una “vocazione”, un scelta di vita e al tempo stesso una battaglia. Ignazia è cosciente che non è stato e mai sarà un percorso semplice: “Se avessi inseguito in ogni istante il dio denaro,/Il mio corpo e la mia anima, non conoscerebbe/il dolore./ Mai, mi sarei addolorata o pettirosso inerme sull’asfalto…/Già chissà chi sarei, dove vivrei./Sono qui, divorata dalla sofferenza che non ostento/e vivo innamorata dell’amore da sempre” (“Chissà chi sarei”). Una volta fatta questa scelta, però, la vita e tutto il resto sono divenuti meravigliosamente poesia: <>. (“Tutto quanto è poesia”). Il lettore che si avvicinerà all’opera di Ignazia, dunque, troverà l’esperienza, le parole e il “locus” di una donna coraggiosa che ha voluto fortemente diventare “poetessa e scrittrice”, con una forza e una eroicità, che ha tratto dall’amore per la sua terra. Possiamo affermare che è lei stessa una poesia vivente, come lo fu quella famosa donna minuta, forte e ardita che prese il Nobel. L’AMORE E LA FORZA DI UNA TERRA CHE GENERA UNA POETESSA.

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