Venticinque volumi raccolgono la vasta produzione dell’autore, tuttora moderno.
Firmò romanzi ma fu anche giornalista, pittore, ideatore della prima graphic novel.
«Il deserto dei Tartari» è in edicola con il quotidiano a euro 8,90
Quando si dice Dino Buzzati si pensa subito a Il deserto dei Tartari. E non soltanto perché è il suo romanzo più famoso, quello che lo ha consacrato scrittore. La storia del tenente Giovanni Drogo che consuma la propria vita alla Fortezza Bastiani nell’attesa dell’arrivo dei nemici — dovendosene andare, ormai vecchio e malato, proprio quando stanno arrivando — ha un valore universale. Nasce da un’esperienza personale — il lavoro «pesante e monotono» delle notti passate al tavolo di redazione del «Corriere della Sera» aspettando «la grande occasione» — ma riguarda ognuno di noi. Ci appartiene. È «una radiografia dell’esistenza umana» per usare le parole dello scrittore Fausto Gianfranceschi; lo specchio di un’esperienza nella quale chiunque può identificarsi perché comune a tutti, a ogni genere di lavoro e di carriera. «Era una macchina nei cui ingranaggi ero preso io», spiegava lo stesso Buzzati, «ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili». Con le loro speranze e delusioni, ambizioni e illusioni, vittorie e sconfitte. È un romanzo sulla fuga del tempo che però non risente del suo passare: era attuale all’uscita, nel 1940, lo è oggi e continuerà a esserlo in futuro. «Potrei chiamarlo il libro della mia vita», confesserà l’autore molti anni dopo la prima pubblicazione.
L’eredità dello scrittore
Saper parlare alle generazioni attraverso temi universali: è questa l’originalità di Dino Buzzati, il suo prezioso lascito costruito pagina dopo pagina; questa l’unicità di un’opera che muta e si adatta a seconda dei tempi, facendone un autore moderno; questa la particolarità che diventa la ragione per la quale oggi non si può non leggerlo. Se infatti Il deserto dei Tartari rimane il suo lavoro più rappresentativo — si contano nel mondo decine e decine di traduzioni, dall’ebraico al giapponese, dal russo al norvegese all’ungherese —, la storia dell’antieroe Drogo non è che una porta per entrare nel suo universo. Quella principale, forse, ma certamente non l’unica, come dimostra la collana che raccoglie i suoi lavori più significativi, in edicola dal primo ottobre con il «Corriere». Ciascuno può così aprire la porta che sente più vicina, più affine e condividere con lui una visione della vita in cui si mischiano cronaca e mistero, vero e verosimile, magia e realtà. Perché accanto al Buzzati scrittore (o forse sarebbe meglio dire prima?) esiste il Buzzati giornalista che entrò in via Solferino appena ventiduenne, nel 1928, convinto di esserne presto «cacciato come un cane», e vi rimase fino alla morte nel gennaio 1972; rivestendo molteplici ruoli — reporter, inviato, corrispondente, critico d’arte, elzevirista — e raccontando i piccoli e grandi fatti che segnarono la storia di quasi mezzo secolo, dalla Seconda guerra mondiale al disastro del Vajont allo sbarco sulla Luna. Esiste il Buzzati drammaturgo, il Buzzati pittore, il fumettista, lo scenografo, l’autore di libretti d’opera. Lo scalatore. E ognuno rimanda all’altro lungo un filo rosso che ha nell’attesa, nel precipitare del tempo, nell’ansia metafisica, nel confronto con la morte, i pilastri della sua poetica. Ogni romanzo, ogni articolo, ogni racconto — la sua forma di scrittura prediletta, eredità del lavoro giornalistico — sprigiona attualità. Il lettore vi si ritrova come in uno specchio, vedendo trasferite sulla carta o sulla tela le proprie inquietudini e speranze, i sogni e le contraddizioni, accanto alle cattiverie del mondo, alle ingiustizie, al ritratto della parte più meschina e crudele dell’animo umano — Buzzati fu un eccellente cronista di «nera»; memorabile il pezzo sull’eccidio di Rina Fort nel ’46: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue»).
Riflessi che si mischiano a un’indagine sulla nostra parte più intima e nascosta che spesso affonda le radici nell’epoca dell’infanzia, in quell’età della fantasia di cui lo scrittore vuole recuperare l’innocenza perduta, contro un’età adulta che non solo non sa che farsene dell’immaginazione, ma addirittura, inspiegabilmente, la combatte. «Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avido di sterminarti, il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace», scrive nelle ultime righe del racconto sull’uccisione del Babau per mano dei grandi.
È come se Dino Buzzati desse corpo alla parte di noi che non vediamo, non vogliamo vedere o che abbiamo dimenticato. Racconta chi e come (e dove) siamo. Crea una smagliatura nel velo che avvolge il mondo per farci dare un’occhiata dall’altra parte. Sa infastidirci e commuoverci. Ci mette a disagio e, a volte, ci consola. Sempre spinto, innanzitutto, dal bisogno di raccontare, non importa se con la macchina per scrivere o con il pennello (gli piaceva definirsi un pittore prestato alla scrittura). E, per raccontare, racconta se stesso, si mette a nudo, si mostra com’è, con onestà e coraggio: «Questo è l’uomo, uno dei tanti se volete, ma uno», scrive nella Formula, una sorta di ricetta esistenziale.
Quando a 57 anni, nel 1963, pubblica il romanzo Un amore, storia di un maturo architetto che perde la testa e ogni dignità per una giovane ragazza squillo, non ha dubbi né incertezze. Non si preoccupa delle polemiche che il libro, lo intuisce, potrebbe provocare: per il tema trattato, per il linguaggio crudo e realista, per l’atipicità rispetto ai suoi lavori precedenti, visto che lascia il fantastico per il realismo. «Perché hai abbandonato il tuo solito mondo della fantasia?», immagina che il lettore gli chieda: «Non ti rendi conto che facendo così hai tradito, o addirittura rinnegato, te stesso?». Così, dopo un processo subìto alla presentazione del romanzo in una libreria milanese, risponde semplicemente. «Ho scritto questo romanzo perché non potevo fare a meno di scriverlo. E ci ho messo la stessa sincerità con cui scrissi Il deserto dei Tartari, forse ancora di più». Confessando che la storia, ispirata a una tormentata relazione vissuta in prima persona, gli aveva permesso, «con dolorosa potenza», di conoscere l’amore come fino ad allora non aveva mai conosciuto e di capire la sua importanza nella vita e nell’arte. «Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere se non vi fosse implicata un’attesa? E attesa di che, se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici?».
Un esame di coscienza
Non segue le mode, Dino Buzzati, non usa strategie. Non appartiene a correnti letterarie se non a quella dettata da Voltaire secondo la quale qualsiasi genere letterario è ammesso tranne il genere noioso — tutte scelte che a differenza di molti suoi colleghi, gli hanno impedito di invecchiare. Ma rimane fedele a se stesso, alla propria sincerità, di uomo e di intellettuale, anche a costo di apparire contraddittorio e «di dire cose che tutti o quasi pensano, ma che nessuno, o quasi nessuno, ha mai il coraggio di dire». «È uno dei libri d’oggi che meglio rompono la dura crosta dell’ipocrisia», scriveva Montale proprio recensendo Un amore: «Buzzati ha imposto a tutti un esame di coscienza».
Parole che valevano allora come valgono oggi. E che si possono riferire a gran parte della sua opera dove Buzzati, uomo di stampo ottocentesco, rigoroso, riservato, «doverista», di un’eleganza dal sapore asburgico e di un’educazione aristocratica, si rivela uomo affascinato dall’avanguardia (ricordiamo le sue opere con Luciano Chailly, il suo interesse per la Pop Art), incuriosito dal progresso e dal futuro (Il grande ritratto è considerato il primo romanzo italiano di fantascienza). Un conservatore rivoluzionario, aperto alle novità e in anticipo sui tempi. Come quando prevede l’invenzione del cellulare, che lui chiama «teletino», e il suo uso maleducato. O quando, alla fine de 1969, pubblica quella che è considerata la prima graphic novel italiana; quel Poema a fumetti che rivisitava in chiave pop un mito classico, ma già si serviva, modernamente, di linguaggi diversi, dalla fotografia alla citazione di opere famose alla rielaborazione di immagini rubate ai rotocalchi, abbinando, come era sempre stato nel Dna di Buzzati, la parola al disegno, la scrittura all’immagine. Un libro che profuma di beat e anni Sessanta e che all’uscita (era la fine del 1969) spiazzò i critici — che cos’era? un romanzo? un libro d’arte? un fumetto? — infastidì Indro Montanelli per l’erotismo esplicito, ma piacque ai lettori e a chi conosceva (e capiva) il bisogno di esprimersi di Buzzati, «di fare cose che vengono su dai visceri» come spiegò la genesi di Poema. «Caro Dino, ho letto il Poema e ci sei tu — tutto — e una grandissima parte di noi stessi, più grande di quanto tu — forse — possa immaginare», gli scrive privatamente Leonardo Vergani. «È una cosa bella, bellissima e io sono orgoglioso che tu l’abbia fatta e che tu continui ad essere così giovane, più giovane e vibrante per la vita di tutti gli altri che ci circondano». E Virgilio Lilli, in un’altra lettera personale: «Ho letto e guardato (o forse, meglio, guardato e letto) il tuo poema a fumetti in un primo tempo con diffidenza, in un secondo tempo con diletto e ammirazione. E ho concluso che hai dato vita a una antichissima cosa nuova che è anche (…) una nuovissima cosa antica». Così nuova che ci sono voluti quasi cinquant’anni per trovarle la giusta collocazione in libreria.
La via per la salvezza
Modernità, sintonia con i lettori, onestà intellettuale, urgenza di trasferire sulla carta (o in un quadro) i pensieri che, come accade a tutti gli uomini, lo agitano. Servendosi della creazione come di una cura, della scrittura come uno sfogo; chiave per scavare in se stesso e linguaggio per parlare al mondo, a noi e a coloro che verranno («L’unica, per salvarmi, è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia», si era detto prima di cominciare la stesura di Un amore). Scrittura come ossigeno, come elemento, indispensabile e irrinunciabile, per vivere.
Annota Dino Buzzati in un quaderno nel febbraio 1962: «Ricordarsi che l’unica residua possibilità non dico di successo ma di vera soddisfazione, di gioia, sensazione di sentirmi vivo, perfino soddisfazione fisica e carnale, l’unico scampo è qui, sulla carta, nei segni che la penna traccia, in questa congiura segreta dello scrivere le cose che nessuno al mondo mai ha scritte perché sono solamente mie e io magari posso anche essere l’ultimo degli uomini ma se riesco a farmi sentire, a farmi capire, questo sarà un avvenimento di portata mondiale. Ma lascia stare questo orgoglio fesso, limitati a constatare che nello scrivere è l’ultima tua possibilità di esistenza, di consolazione, di vittoria forse».
di Lorenzo Viganò, il Corriere della Sera