Bompiani pubblica nei Classici una selezione delle storie brevi dello scrittore curata da Cesare De Michelis: il volume rivela la coerenza poetica di un’unica narrazione
Sono tutte, in un certo senso, storie naturali e straordinarie quelle che Antonio Debenedetti va narrando fin dal 1981, quando uscirono i racconti di Ancora un bacio con cui lo scrittore, abbandonato lo sperimentalismo degli esordi influenzato da Gadda e Manganelli (Monsieur Kitsch, 1972), consolida una voce e una poetica proprie, originali e coerenti. Giulio Ferroni la definisce «fedeltà allo stile» nel testo scritto per Sentimentalgia, il piccolo libro a tiratura limitata curato da Paolo Di Paolo, che in giugno Elliot ha pubblicato per festeggiare gli ottant’anni dello scrittore raccogliendo il contributo di scrittori, amici, critici.
E proprio Racconti naturali e straordinari, come il titolo della raccolta pubblicata nel 1993, si intitola il volume edito ora da Bompiani nei Classici, curato da Cesare De Michelis che nel 1972 gli pubblicò nella sua Marsilio Monsieur Kitsch, primo testo letterario della sua attività di editore di narrativa italiana (il libro vincerà il Viareggio Opera prima). In realtà l’esordio di Debenedetti era stato poetico, nel 1958, con la prima e unica raccolta, Rifiuto di obbedienza, prefata da Giorgio Caproni, il maestro amico di famiglia che quando era bambino gli faceva lezione e gli correggeva i compiti.
Il volume di Bompiani raccoglie 43 storie brevi selezionate dai 7 libri pubblicati dal 1981 al 2011 e che, a una giusta distanza, permettono di comprendere appieno il senso dell’intera opera: da Ancora un bacio, dove, come scrive De Michelis nella prefazione, i racconti «si accumulano come altrettanti frammenti di storie esplose o perdute», dominati da un acuto senso di nostalgia e da un’avvolgente proiezione autobiografica, alla maturità rarefatta di raccolte come Amarsi male, E fu settembre, In due, dove la lucidità di visione dei protagonisti conduce ora a una fredda malinconia o a uno strazio evocato, scrive ancora De Michelis, «senza emettere un grido».
Sono tutte, in un modo o nell’altro, vite che hanno assorbito e digerito lo straordinario fino a farlo diventare naturale o che, viceversa, hanno elaborato il naturale trasformandolo in straordinario. Certo, in questi trent’anni di racconti, la narrativa di Debenedetti, torinese adottato da Roma, ebreo per parte di padre, acuto osservatore della società e soprattutto della borghesia romana, ha inglobato temi, adeguandosi al mutare dei comportamenti, alle paure, alle ansie, alle aspirazioni di quella umanità che lo scrittore ama raccontare e, contemporaneamente, interpretare.
D’altronde se l’opera di Debenedetti è radicata nel Novecento, nella grande letteratura che ha frequentato fin dalla sua infanzia, a cominciare dall’eccentrico padre, il grande critico Giacomo (Giacomino nella biografia che gli ha dedicato il figlio), negli autori che ha letto e fatto suoi (Moravia, Pirandello, Landolfi, Soldati), l’attenzione al presente è acuta e precisa, sempre pronta a cogliere quel germe di dissoluzione che ogni presente contiene.
Debenedetti lo osserva stringendo il campo sulle singole vite, sui sentimenti, sui pieni e sui vuoti, sui tormenti, sugli amori slabbrati dei suoi personaggi, messi all’angolo a volte dalla storia, a volte dalle loro debolezze, dalle meschinità altrui o da un’incolpevole, fatale solitudine. Eppure c’è vita nei racconti di Debenedetti, scorre il sangue nei suoi personaggi. È abitata la sua Roma.
Una scrittura elegante e misurata ma inventiva benedice queste storie essenziali anche quando il realismo si lascia increspare da una lieve brezza fantastica come ne Le parole che non parlano, storia di un fantasma a Torino (città magica) o da un gusto parodistico irresistibile come in Call center, dove un vizioso operatore dà sfogo alle sue perversioni da ascoltone (il corrispettivo uditivo del guardone) con un’ignara signorina viziata che crede di essere in pericolo. O ancora, la scrittura di Debenedetti è animata da uno spirito surreale come nel dialogo al cimitero di Sanremo tra lo scapolo Tino e la tomba della madre che, anche da morta, lo convincerà a non sposarsi (Strategia di una madre).
Il rapporto con l’eredità ebraica trasmessagli dal padre si traduce spesso nel ricordo delle persecuzioni fasciste la cui drammaticità è risolta con mirabili tocchi lievi e personaggi minimi come ne L’inquilino misterioso e, ancora di più, nel toccante E fu settembre che dà il titolo alla raccolta del 2005. Qui il pigionante ebreo Enrichetto e la signorina Clotilde, la «donnetta di chiesa», zitella, presso cui ha preso alloggio, trovano una forma di affettuosa comunicazione basata su un’inconsapevole solidarietà, sottraendosi per poco alla follia delle leggi razziali.
Le sentimentali incursioni torinesi, la precisa topografia romana incorniciata da un doloroso senso del tempo (che dal periodo fascista arriva all’orizzonte mobile degli anni Duemila) e definita dalla condizioni atmosferiche (la città dopo pranzo impigrisce «come un leone sazio dietro le sbarre della sua gabbia») riempiono ogni spazio di questi racconti. Che si fanno corpo — corpo umano e corpo sociale — fino a costruire, in filigrana, un unico grande romanzo italiano.