Recensione “I Poeti di Via Margutta vol. 81” a cura di Mario Richter

A contrastare nel nostro paese una diffusa, disordinata e, salvo in rari casi, scarsamente seguita attività poetica, si è da qualche tempo costituita a Roma una équipe di giovani cultori dell’arte e della poesia, che per dare senso e forza al suo intento ha ritenuto opportuno avvalersi del nome di una via romana divenuta famosa, soprattutto nel corso del secolo scorso, grazie a una prestigiosa e ben nota presenza e frequentazione di pittori, registi e poeti.

A garanzia di questa meritoria iniziativa, l’italianista Massimo Gherardini ha riunito nel presente libro, (ottantunesimo della “Collana Poetica” della Casa Editrice Dantebus) un gruppo di otto poeti capaci di rappresentare con efficacia e in diverse forme un significativo aspetto di quanto, nella situazione attuale, potrebbe appunto rimanere ingiustamente nell’ombra. Questi otto poeti non sono abbandonati a sé stessi a rischio di lasciare disorientato il lettore, ma trovano una misurata e sapiente guida nei dati e nei rilievi chiarificatori che il curatore dedica via via alle diverse personalità e alla scelta dei relativi componimenti (normalmente 12). Si tratta di un’utile voce, discreta e unificante.


Apre felicemente la raccolta la poetessa padovana Maria Luisa Daniele Toffanin, la cui “poesia – osserva giustamente Gherardini – si fa canto e danza” e le cui parole “sono semi che si piantano nella terra del cuore…per far rinascere una vita fiorita” (p. 6). E in effetti la Daniele Toffanin permette al lettore di camminare attraverso la scomposizione, la ricomposizione e la trasfigurazione di una realtà che potrebbe in sé essere banale e che, al contrario, consente un suggestivo ingresso nel mistero inatteso e profondamente vero della corrispondenza affettiva tra l’uomo e il mondo. È un mistero che, per una via poetica di natura quotidiana e familiare, porta a valori soprannaturali di ampio respiro e di mistica intensità.


Jessica Santin, “costretta dalla cattiveria e dalle convenzioni sociali, si ritrova a sognare un canto di libertà difficile da afferrare, eppur così vivido nella sua mente” (p. 20). Un dolore soffocato e persistente percorre a ogni passo i versi di questa trentenne cosentina, nella quale arde incessante con forza un fuoco inestinguibile avendo lei permesso che nel proprio corpo agissero “i buoni istinti primordiali” (“La Taranta”).

Con la frequenza di espressioni perentorie o interrogative, spesso in formulazioni di tipo nominale, la poetessa veneta che ha scelto di chiamarsi Hermitage esprime il suo “sentimento non espresso / Un silenzio narrante”, arrivando a suscitare emozioni contrastanti e dolorose in quello che è da lei definito “L’illogico e sconosciuto viaggio, in cui ogni possibilità appresa / muta in destinazione inaspettata” (“Borderline”).


Il ventunenne Pietro Cocco scava negli anfratti della vita attuale avventurandosi coraggiosamente e con l’inquietudine di una versificazione istintiva nel suo ricco mondo onirico, che Gherardini non esita ad accostare alle figurazioni di Chagal. I suoi sogni ad occhi aperti si risolvono nella luminosa “preghiera” che con limpido candore e pacata passione celebra l’amore materno (“Dear mama”).


Considerando la vita “un’emozione da cogliere” (“Anime in cerca di Vita”), Vittoria Ciriello abbraccia appassionatamente l’esperienza del vivere con la volontà costante di superarla. Nel cuore della sua feconda immaginazione si colloca una bella poesia, “L’isola dei venti”, l’Islanda, che esemplarmente diventa per lei “una terra dove soffia il vento della vita / e del coraggio” e che, osservandone “il buio di verdi scie, / mutevoli e veloci” che illuminano la notte “di aurore e stelle”, la giovane poetessa chiama “Isola dei sogni”, “Isola del mio cuore”.


“Bisogna perdersi per ritrovarsi – osserva il curatore a proposito dei versi di Elena La Monaca –, una poetessa dotata della capacità di suscitare suggestioni nel suo metaforico viaggio nel “mare della poesia, laddove tra le onde dell’arte è possibile rinascere” (p. 75). È una rinascita che trova la sua forza soprattutto nell’amore, vissuto con l’intensità di un empito dalle movenze quasi religiose fino a evocare a tratti l’appassionato slancio che innerva il biblico Cantico dei Cantici (“Sei tutto per me, /se sorridi io sono felice, / se sei triste, io son triste. / Sei la prima vita su cui posai / la mia cieca fiducia, / quella a cui devo la mia vita” (“Tutto”).


Nella silloge di Marco Covelli “la fiamma purificatrice delle emozioni e della passione – sottolinea opportunamente il curatore – brucia la maschera di falsi Io, le catene e le mura, sicché tutto diventi cenere e da esse il poeta – e con lui il lettore – possa risorgere come una fenice (p. 89). Ciò che soprattutto colpisce nella calda personalità di questo giovane temperamento poetico è il vigore delle immagini, l’incalzare affannoso degli interrogativi e dei desideri (si veda, in particolare “Silenzio”).


Come nella sua distesa e ampia apertura lirica, il volume si conclude con le note di Carmen Guillermina Tarsi, una coreografa di professione che sa prestare alla poesia il “passo di danza sulle punte, un elegante valzer, un passionale tango” (p. 103). Le parole guidano il senso con la loro particolare sonorità e con forti suggestioni illuminano le immagini travalicando la lingua e trasformandola.


A questo punto, considerando il libro nel suo insieme, ci si potrebbe forse chiedere quale possa essere la peculiarità di un gruppo di poeti che in diversi modi affrontano temi universali e da sempre frequentati come l’amore, la morte, la vita, la malinconia, la solitudine, la libertà ecc. La risposta viene dal ben noto e istruttivo aneddoto raccontato da Paul Valéry. Un giorno il grande pittore Edgar Degas, mentre a Parigi
cenava con Berthe Morisot e Mallarmé, si lamentava delle grandi difficoltà che gli impedivano di portare a termine un sonetto (Degas era anche un volonteroso e valoroso poeta). “Non sono le idee che mi mancano… – diceva ai suoi commensali –, di idee ne ho fin troppe!”. Allora Mallarmé gli replicò con la sua consueta dolcezza: “Mio caro Degas, non è con le idee che si fanno i versi, ma con le parole”.

In quest’opera la peculiarità e con essa l’originalità si affermano, in rapporto alle diverse sensibilità, appunto nel rispetto delle parole, ai cui significanti, certo non meno che ai significati, è affidato il preminente compito di dare vita a un altro mondo, a un’altra emozionante e inedita realtà.

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