L’ARTE CHE CERCA L’ARMONIA DALLA QUALE SCATURISCE LA BELLEZZA
«Si dipinge col cervello, non con le mani» (Michelangelo). L’artista Eleonora Rossi, pur autodefinendosi una “disegnatrice”, fonda la sua arte variegata, pregiata, raffinata, pensata, sudata, inseguita, sulla ricerca dell’armonia e sulla convinzione che da essa scaturisca il “bello”. Rielaborando il pensiero dei classici, Eleonora fissa il proprio modello di bellezza: quello della armonia delle forme, della simmetria e proporzione fra le varie parti di un oggetto, quindi fra aspetti ed elementi diversi di una stessa realtà. «Crisippo […] afferma che la Bellezza non risiede nei singoli elementi, ma nell’armoniosa proporzione delle parti, nella proporzione di un dito rispetto all’altro, di tutte le dita rispetto al resto della mano, del resto della mano rispetto al polso, di questo rispetto all’avambraccio, dell’avambraccio rispetto all’intero braccio, infine di tutte le parti a tutte le altre, come è scritto nel Canone di Policleto» (“Placita Hippocratis et Platonis”, Claudio Galeno). Si tratta di un modello che, affermando la necessità di rispettare determinati principi aritmetici e geometrici, assume tuttavia forme e significati diversi. Ecco, allora, che prende vita nell’artista un filone dedicato al “chiaroscuro”, con le opere intitolate “La mulatta”, “Il moro”, “Il romano”, “Lo scorticato”. Eleonora crede che luci ed ombre possano rappresentare parti visibili ed oscure dell’interiorità di ciascuno. Il “chiaroscuro”, ispirandosi alla scultura classica greco-romana, diviene piano piano non solo “espressione”, ma anche ricerca e sviluppo nella proporzione, nell’equilibrio della forma, nell’armonia dei volumi. Da tutto ciò scaturisce un livello superiore, dove la bellezza è luce e verità. Eleonora considera l’artista, allora, non solo maestro ispirato dalle Muse, capace di “vedere” la verità originaria e profonda delle cose, ma anche “essere” in grado di creare un modello d’arte ricolmo di luminosità e splendore. Maestro di questa concezione fu Michelangelo, con il “David” sua opera-simbolo… e proprio ad esso Eleonora si ispira, raffigurando nudi maschili e femminili, ammirando in essi la perfezione del movimento corporeo. L’idea base è che il fattore-creatore divino abbia intriso l’essere umano di quell’essenza eterna, di quella scintilla, di quel soffio vitale che è specchio, immagine e sorgente del bello. «Osserva il cielo, la terra e il mare e tutte le cose che in essi splendono in alto o in basso camminano, volano o nuotano; hanno forme, perché hanno numeri: strappaglieli, non saranno più nulla. […] Chiedi dunque che cosa piace nella danza; ti risponderà il numero: “Eccomi, sono io”. Osserva la bellezza di un oggetto d’arte; i numeri sono racchiusi nello spazio. Osserva la bellezza del movimento dei corpi; i numeri si svolgono nel tempo. […] Trascendi dunque anche lo spirito dell’artista, per vedere il numero eterno; allora la sapienza splenderà per te dalla sede interiore e dallo stesso santuario della verità. E se abbaglia il tuo sguardo ancora troppo debole, riporta gli occhi della tua mente su quella via, dove si mostrava affabilmente» (“De Libero Arbitrio”, Agostino). Grazie agli studi architettonici e alla pratica nel campo delle discipline geometriche, Eleonora sviluppa perfettamente la bidimensionalità e la tridimensionalità, attraverso l’uso delle assonometrie e della prospettiva sia nel disegno tecnico che in quello pittorico (“Studi architettonici”, “Studi volumetrici”, “Studi anatomici”). Questa peculiarità dona alle sue opere movimento, vita, realtà (“Il piede”, “Il monco”). Chiude il cerchio la sperimentazione tecnica, materica e materiale: dal mordente alla carta crespa, dal pastello acquerellabile al tratto nero rigido. Il lettore/osservatore che si avvicina all’opera di Eleonora, dunque, si troverà di fronte ad un’arte che, come improvviso manifestarsi di una luce folgorante, rende soave e armoniosa una realtà prima informe e caotica, procurando così piacere in chi guarda. «Bellezza è verità, verità è bellezza, – questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta» (John Keats).