LA VOCE “DER CORE DE ROMA” CHE FOLLEMENTE GRIDA ALL’UOMO L’IMPORTANZA DELL’AMICIZIA
«C’è un’Ape che se posa/su un bottone de rosa:/lo succhia e se ne va…/Tutto sommato, la felicità/è una piccola cosa» (Trilussa)». L’arte di Alberto Battistelli nasce e si fonda su di un’idea e concezione fondamentale: la poesia deve essere “la voce der core”. L’uomo Alberto, allora, diviene poeta nell’attimo esatto in cui decide di dare la parola alle sue emozioni, ai suoi sentimenti, alla sua vita e soprattutto decide di farlo in modo “vero”, “reale”. Decisivo, infatti, diviene in questo passaggio la scelta del vernacolo: il dialetto romanesco, come stile, linguaggio, forma. Esso rappresenta non soltanto la lingua del “parla come mangi” ma molto più profondamente del “parla come senti (nel cuore)” ed anche al livello più alto “parla come pensi” e “parla come vedi”. In esso è contenuta poi la verace saggezza popolare romana, capace di sintetizzare in poche parole grandi perle del sapere e del vivere. Una lingua che porta con sé tanto l’eco terreno e territoriale del popolo testaccino e rionale, come Pasquino e le statue parlanti, quanto l’aulicità della Roma papale o imperiale, come nei versi del Belli, di Trilussa o del Pascarella. Ecco che, dunque, prendono forma i versi di Alberto che scorrono al centro dell’essere umano e della vita, come il “biondo Tevere” nell’Urbe. Il messaggio è intenso, profondo: l’uomo, spesso provato nella vita dalla sofferenza e da un mondo contemporaneo lacerato dal male endemico dell’invidia: «Li contemporanei so’ assai pericolosi/Perché essendo ‘n vita so ‘nvidiosi» (“Li contemporanei”) tende ad estraniarsi, a cercare le stelle, la verità, l’eterno, il divino… eppure, per quanto tale tendenza sia nobile, egli si ritrova solo nel cammino. Il conforto può arrivare dagli ambiti familiari, amicali, che sono vicini-concreti e non lontani-astratti. «Quanno arivi sur confine der tormento/Cerchi attorno ‘n segno dar firmamento/Ma le stelle so lontane/E porteno poca consolazione/C’hai bisogno der concreto, de quarcosa de vicino/Che rischiari er buio proprio come ‘n lumicino/Der telefono ‘no squillo po’ esse sufficiente/Pe’ porta’ le cose su n’artro fronte…» (“Stelle”). Il poeta indirizza così un filone della sua arte all’ambito familiare (“Ciao ma”, “Edipo Re”) ed intimo. L’uomo, insomma, per riempire quel vuoto che sembra incolmabile, deve guardare a ciò è tangibile, imparare ad apprezzare ciò che ha: rendersi conto che un amico è davvero un tesoro. Alberto dipinge una splendida immagine, di tutto ciò, rappresentando l’amicizia come il filo d’Arianna che aiuta l’uomo ad uscire dal buio e intricato labirinto dell’esistenza: «Passi er tempo ‘n mezzo a ‘na confusione/E te perdi d’animo cercanno ‘na raggione/Ma si c’hai ‘n amico, uno vero, ma normale/Ne la vita poi spera’ in quarcosa de speciale/Nun conta gnente che sa’ fa’ o chi è,/conta solo che ha scerto te…/Nun c’è na definizione esatta dell’amico vero/L’uinca cosa è che co’ lui poi esse sincero!…/L’amicizia è ‘n filo d’arianna sottile e forte/Che ritrova er suo percorso anche dopo la morte» (“Amicizia”). Il poeta è colui che diviene “folle” per far sentire il proprio grido, perché questa è l’unica maniera di ottenere ascolto: «Sto monno sembra ‘n gran mercato/E nun c’è più nessuno che vie’ rispettato/Li genitori che vonno da consiji/So quelli che hanno preso schiaffi da li padri e da li fiji…/Si noti bbene a sto mondo disgraziato/C’è solo ‘n soggetto assai temuto/A chi nun je manca l’attenzione/Solo er matto… mette soggezione/Poi strilla’ o chiede co le bbone maniere/Ma si nun dai da matto scordate de ottenere!» (Er Matto). Trilussa scriveva: «La tartaruga aveva chiesto a Giove/”Vojo una casa piccola, in maniera/che c’entri solo quarche amica vera/che sia sincera e me ne dia le prove.”/”Te lo prometto e basta la parola;”/ rispose Giove “ma sarai costretta/a vivere in una casa cosi stretta/che c’entrerai tu sola”» (“La tartaruga”). Alberto, invece, che come un “matto” canta d’amore e inneggia all’amicizia, grida “de core e dar core” al lettore che l’amicizia è come una stella venuta giù dal cielo… la casetta, che chiede l’animaletto a Giove, ospiterà almeno due tartarughe! «’Na mano calla, ‘na parola amica/Po’ fa’ torna’ la luce in men che non si dica/Come se ‘na stella venisse giù dar cielo/Pe’ levà da quello sguardo er triste velo» (“Stelle”).