Walter Benjamin e i confini di arte e violenza

Non deve stupire il successo che il filosofo, saggista e critico Walter Benjamin (morto nel 1940 a 48 anni) sta avendo ai nostri giorni. Le sue opere sono apprezzate da opposte tendenze e, d’altra parte, nel suo pensiero confluiscono la mistica ebraica (amico di Gershom Scholem, teologo e semitista israeliano), il marxismo (fu vicino a Bloch e Brecht) e le problematiche della Scuola di Francoforte (sodale di Horkheimer e Adorno).
Inoltre la sua attenzione alla critica e all’arte ha fatto scuola. Einaudi ha in catalogo le “Opere complete” (8 volumi), Bompiani ha da poco riproposto con il testo tedesco a fronte “L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica”, Mimesis in questi giorni pubblica la tesi del 1919: “Il concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco”.

Sono alcuni esempi. Di tale autore, pur in un mercato librario non fiorente come quello italiano, sono disponibili decine di titoli. Tra essi vale la pena ricordare quello ora pubblicato da Castelvecchi: “Senza scopo finale” (pp. 304, euro 25). E’ la raccolta degli scritti politici di Benjamin, dal 1919 al 1940, anno in cui si uccise per sfuggire alla Gestapo. Il libro è stato tradotto e annotato da Massimo Palma.
In tali pagine si riflettono l’uomo e la sua vicenda intellettuale. Ci sono le tracce di un saggio che avrebbe dovuto intitolarsi “Politica” e che mai fu realizzato; si avverte la svolta marxista del 1924; c’è il superamento di tante illusioni, di innumerevoli tesi e anche altro.
Le pagine dedicate alla violenza meritano una speciale attenzione. Non si creda di trovarvi aforismi o osservazioni prive di dubbi, perché Benjamin scrive e ripensa continuamente, evidenziando nelle note termini o particolarità. Sotto la data 1920 si legge: “Solo lo Stato ha un suo diritto all’uso della violenza”. Quest’altra notazione è del 1921: “I lavoratori organizzati sono oggi, accanto agli Stati, l’unico soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla violenza”.
Benjamin va oltre. Affronta anche la “violenza mitica” degli antichi dei. La definisce: “Non mezzo per i loro fini, a stento manifestazione della loro volontà, in primo luogo manifestazione della loro esistenza”. Riflette anche sulla “violenza divina”, si legge la locuzione “terrorista spirituale” (in prestito da Kurt Hiller), tocca il tema dei Comandamenti, scrive che “varrebbe la pena di indagare l’origine del dogma della sacralità della vita”. C’è da perdersi.
Tra le altre questioni affrontate da Benjamin nel libro di Castelvecchi vale la pena soffermarsi su “Capitalismo come religione” o su “L’errore dell’attivismo”. Una sua battuta in quest’ultimo scritto del 1932: “… si può assumere con Lichtenberg, che i cani, le vespe e i calabroni, se fossero dotati di ragione umana, potrebbero forse diventare padroni del mondo; gli intellettuali, benché di tale ragione siano dotati, non ne sono in grado”.

di  il Sole 24 Ore

 

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