MARIA GRAZIA TEMPONE

ABBIAMO POCO PER TROVARE IL NOSTRO SOLE, COLORARLO D’INFINITO E DONARLO

L’opera poetica dell’autrice Maria Grazia Tempone, si colloca sulla scia dei grandi poeti italiani D’Annunzio e Pascoli e i successivi Crepuscolari. La poesia è un grido interiore, che denuncia la misera e mortale condizione umana: “Siamo solo un frammento di esistenza/e pensiamo di possedere l’universo/insieme coi sentimenti/ma ritorniamo polvere/e un soffio di vento ci spazza via/prima di aver posseduto l’eternità/ci restano solo due date/incise su una lapide di marmo/in compagnia di fiori secchi/e ragni solitari” (“DUE DATE”). La lirica di Maria Grazia canta, in forma dimessa e stanca una crisi dell’esistenza, nella società e nel mondo odierno. I versi sono perciò rarefatti, profondi, pensati, perché esprimono la riflessione nel proprio silenzio personale. Evidenti sono gli influssi: da un parte del D’Annunzio del “Poema paradisiaco”, e la poetica pascoliana, tra il mondo umile di “Myricae” e la figura del “Fanciullino”; dall’altra dei poeti Crepuscolari, con il loro drastico rifiuto della realtà. Un mondo prosaico e velato di tristezza malinconica: “Il tuo incanto durò un istante/Il tempo di venire al mondo/poi il buio della vita umana” (“L’INCANTO”). Il pessimismo cosmico di Leopardi sembra riecheggiare nei versi dell’autrice: “Non trovo parole/da baciare alla vita/bere alla fonte/del cuore/per rendere/eterno ogni/istante/non vibrano /versi /nell’immobilità/del tempo/l’emozione si perde/in un respiro nero/nessun arcobaleno/dove trovare/una rima/solo orizzonti/ della mente/dove cercare/la fantasia/persa/nei labirinti /dell’anima” (“NON TROVO PAROLE”). Esiste dunque solo il buio? La poesia è in realtà per Maria Grazia una medicina, per guarire e far guarire. Il termine giusto da utilizzare è CATARSI. Come nel teatro greco, nell’opera dell’autrice, l’ars è il liberatorio distacco dalle passioni, tramite le forti vicende rappresentate sulla scena dalla tragedia ad avviare un processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da situazioni conflittuali. L’arte purifica, nobilita e guarisce dalle ferite inflitte dal mondo e dalla vita. La poesia che meglio incarna ciò è “A PAPÀ”, che monda, ricuce, risana una profonda lacerazione interiore: “Cuciresti il sole/stireresti il mare/e spilleresti le stelle/cucito a tutti hai sempre/Mattino/sera/gli occhi tuoi al tramonto/son stanchi/si chiudono come una lampo/giorno non c’è stato/che ago tu non abbia toccato/tra noi i rapporti/cuciti non son stati/fredde le domeniche/di periferia/in poltrona/ad ascoltare le partite/io li/tu assente/quando c’eri/io non c’ero/son passati vent’anni/padre mio/ricucirlo il passato/ormai non si può più/non ci resta/che rammendare/la voragine tra noi/scegliamo un ago/e con filo colorato/costruiamo un arcobaleno/finalmente insieme” (A PAPÀ). Nel breve tempo che ci spetta, il compito del poeta è di riuscire a trovare quell’attimo di sole, quello che Baglioni chiama “Quell’attimo di eterno che non c’è” e donarlo prima che scompaia e prima di scomparire: “La vita scorre/veloce/inesorabili/lancette/mi lacerano/il petto/soffocando /respiri/e sogni/Ho poco tempo/per trovare /il mio sole/colorarlo d’infinito/e donarlo a te” (“ULTIMI ISTANTI”). Ritrovare la PAX interiore si può. Missione della poetessa è lasciare al lettore questo messaggio: per non morire bisogna tornare bambini, ascoltare il bambino che è in noi (Il FANCIULLINO di Pascoli). Come un fanciullo lasciarsi andare in bicicletta senza mani, per vivere intensamente, per fermare il tempo e cogliere un ricamo d’eternità: “Verdi pomeriggi d’estate/ad assaporare la vita/non avevo paura/di morire/mi lasciavo/guidare/senza mani/il manubrio/che mi offrivi/era dolce/che li vedevo/negli occhi/quei tramonti/di stelle/correvamo felici/io e te/amore/a due ruote/dove il tempo/si ferma/e nasce/un ricamo/d’eternità” (“DUE RUOTE D’AMORE”).

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