PAOLO IVAN TONA

UN VIAGGIO NEL DUBBIO TRA LA VITA E LA MORTE CON PLATONE E DANTE

L’opera “la vita come mito e rappresentazione” del poeta Paolo Ivan Tona è una erudita silloge poetica, composta in 60 canti, suddivisi in tre poemi: Alessandrina, Romana e Niuiorkese. La grande cultura filosofica e letteraria dell’autore, gli permette di nascondere ermeticamente, come in un labirinto la VERITAS della trattazione. Come nel dedalo del Minotauro, dobbiamo, però cercare un filo d’Arianna che ci faccia da guida: per segnare il cammino, per spingerci nel profondo, uccidere il Minotauro e tornare indietro per la retta via. Quando si parla di mito, un erudito non può non avere in mente il “FEDRO” di Platone e il suo famosissimo “Mito della Biga Alata”. Platone parla del mito come di un aiuto alla Ragione quando questa deve affrontare argomenti – come quello della natura dell’anima – che sfuggono a una trattazione rigorosamente logico-razionale. La natura dell’anima, quindi, è descritta attraverso uno dei miti più noti: quello della “biga alata”, in cui l’auriga e i due cavalli rappresentano gli elementi dell’anima “in azione”. Parla Socrate, che riferisce un discorso del poeta Stesicoro: “Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga …per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta…Così, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale… Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano dall’anima. Ed è press’a poco in questo modo. La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino più delle altre cose che hanno attinenza con il corpo. Il divino è bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtù affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del cielo, guidando la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto. A lui vien dietro l’esercito degli dèi e dei demoni ordinato in undici schiere: Estia rimane sola nella casa degli dèi. Quanto agli altri, tutti gli dèi, che nel numero di dodici sono stati designati come capi, conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato assegnato. Varie e venerabili sono le visioni e le evoluzioni che la felice comunità degli dèi disegna nel cielo con l’adempiere ognuno di essi il loro compito. Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono, perché l’Invidia non ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano ai loro banchetti e festini, salgono per l’erta che mena alla sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché per le pariglie degli dèi sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa è faticosa, perché il cavallo maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene addestrato. Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse contemplano quanto sta fuori del cielo. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è. E quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e se ne è cibata, s’immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed essendo così giunta, il suo auriga riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in più li abbevera di nettare. Questa è la vita degli dei. Ma fra le altre anime, quella che meglio sia riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione superceleste, ed è trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma essendo travagliata dai suoi corsieri, contempla a fatica le realtà che sono. Ma un’altra anima ora eleva il capo ora lo abbassa, e subendo la violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed eccoti, seguono le altre tutte agognanti quell’altezza, ma poiché non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte qua e là e cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’atra. Ne conseguono scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate e molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto la visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lí in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima e che di questo si nutre la natura dell’ala, onde l’anima può alzarsi. Ed ecco la legge di Adrastea. Qualunque anima, trovandosi a seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane intocca da dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando l’anima, impotente a seguire questo volo, non scopra nulla della verità, quando, in conseguenza di qualche disgrazia, divenuta gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di questo peso perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferina durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che più abbia veduto si trapianti in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla prima nella visione dell’essere s’incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di stato, o in un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle fatiche, o in un medico; che la quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta le si adatti un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima un operaio o un contadino, all’ottava un sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno. Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore. Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni -giacché non mette ali in un tempo minore – tranne l’anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza, o di chi ha amato i giovani secondo quella sapienza. Tali anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica, riacquistano per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre, quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano la pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito celeste, ci vivono così come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. Allo scadere del millennio, entrambe le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie secondo il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo. Giacché l’anima che non abbia mai visto la verità non giungerà mai a questa nostra forma. Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è. Proprio per questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, perché per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di quegli oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Così se un uomo usa giustamente tali ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente perfetto; e poiché si allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è accusato dal volgo di essere fuori di sé, ma il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità. […] (“Fedro”, Platone 246-248). È questa la guida, il filo rosso che va utilizzato. ALESSANDRINA. “Il Maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà”, la citazione di Paolo Conte apre questa sezione e conferma la giustezza della guida. Una definizione importante accompagna un canto successivo: “Ancella è putrida la tua acqua perché io possa dissetarmi”. La sete di conoscenza, di verità non è appagata dall’acqua fornita dalla realtà e del mondo, il poeta sente che c’è molto di più. Eppure Nel CANTO TERZO O DELLA DOPPIA ESISTENZA, nasce il dilemma da cui prende vita l’intera trattazione, ovvero il dubbio che invece del “Qualcosa in più”, ci sia Qualcosa in meno: “Quel mondo strano che gli era dentro e gli sfuggiva, cos’era?” E se nascere avesse significato trovarsi di colpo e non capire, e se morte fosse stata tutta la vita e non l’attimo?”. L’anima del poeta sembra rendersi conto di essere caduta: “ma quando un’anima perde le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale” (“Fedro”). Come la teoria della freccia…La vita sta nella tensione (mondo delle idee) dell’arco e la freccia vive pienamente solo incoccata. Una volta scoccata è solo morte? “Purtroppo, quando il cerchio si sfalda e non si può, porre rimedio, è allora che cade la cupola, anzi per lungo tempo resistettero, poi il secondo e il terzo ma già da lungo tempo vacillava e tutta la bellezza era svanita” (CANTO QUARTO O DELLE MARIONETTE). Ovvero, quando l’uomo comincia a fare questo ragionamento non è più fermabile. Dare, dunque, seguito a questo pensiero terribile che la vita non sia vita ma morte o “ubriacarci e lasciare che tutto ci travolga, aggregarci anche noi al carrozzone, proprio nel mezzo, disperderci anche noi nel gregge” (CANTO SETTIMO O DEI BEGLI OCCHI). La cupola è caduta, il cerchio si è sfaldato, il poeta si è già inoltrato nel labirinto, non si torna indietro: “O Morte e solo Morte dunque, per questo labirinto, o dubbi ancora su altri labirinti oltre la morte o nulla che essa e dunque limite” (CANTO OTTAVO, EURIPIDE O DELL’ELEGIA CICLICA”). È come se il Cavallo nero del mito platonico trascinasse ancora più giù l’anima, come se essa non si sia fermata al materiale ma crolli nella morte abissale. Tuttavia, anche se il corpo in questa fase può essere considerato morte, il pensiero invece è qualcosa di vivo ed esso è in grado di capire che non è questo il luogo della conoscenza: “Il corpo non esiste, non esiste lo spirito, tramite essi è impossibile giungere alla conoscenza. Se il Pensiero è ciò che noi viviamo…” (CANTO NONO O DEL PURO CORPO E DELLA MENTE). Il corpo è come una cella: “Prigione Alessandrina mura lisce/dentro cui vivemmo e che ci parvero/essere il tutto e noi essere tutto” (CANTO DECIMO O DELL’ESSENZA). Come un esule il poeta spazia per diversi mondi alla ricerca della risposta. Nel CANTO DODICESIMO, L’ALTRO LO STESSO si incarna in Giuda che segue il Cristo e gli chiede chi sia veramente, ottenendo la parmenidea risposta “IO SONO”; NEL CANTO QUATTORDICESIMO ITACA O DELLA SOSPENSIONE egli, novello Ulisse, vive la solitudine del non ritorno e addirittura della sparizione della patria: “Queste parole non hanno nessuna Itaca”. Salomè danzante nel CANTO DICIOTESSIMO poteva chiedere ciò che voleva…e se avesse chiesto come Pilato “Cos’è la Verità?”. Passando per la Grecia, la Terra Santa, Roma il viandante dopo essere giunto al limite della morte, sembra udire delle parole di pace. Varca le soglie che lo portano dall’Inferno al Purgatorio: “Come se questa fosse una sinfonia, dolce sinfonia del mio inferno. Ho messo i vecchi abiti per l’addio…il tuo male fu un sogno…” (RONDO’). Inizia la risalita. ROMANA. L’anima inizia molto vagamente a ricordare da dove viene, non è più un insensato peregrinare a piedi senza meta, il poeta sale su di un vascello: “Via Via le passioni scemano, gli ideali svaniscono e ci troviamo a inseguire qualcosa che noi stessi non sappiamo e annaspi chiamo in ricordi che vorremmo ci facessero vibrar…Stancamente saliamo sul vascello” (CANTO TERZO IL VIAGGIO). Un percorso simbolico nella Roma classica. Prima il poeta incontra il Tempo, poi Cesare e disserta sull’ARTE e sulla PIETAS, cita Petronio e scrive un INNO A ROMA. Eppure il Coro nel DICIASSETTESIMO CANTO fa capire che non è nemmeno questo il luogo della risposta al suo dilemma, il luogo della Veritas: “Non qui la troverai tra queste crepe/perduta è la memoria e faglia il volto/traccia non trovi che ti rechi l’orma/e non esiste via che possa sciogliere/lei da sé stessa e non esiste via/che faccia ritrovare lei a sé stessa/fatale caso è l’umano/il tempo scorre solo su sé stesso/non è vento né cenere, il suo essere/si sfalda sotto i colpi dell’esistere!”. Ma ormai il viaggio è intrapreso, esso è ormai una sfida. Come una breccia aperta dai Barbari, Roma sia conquistata o la morte li colga e chiuda per sempre il passaggio: “Noi stessi lo capiamo, è un progetto/che corre molti rischi, primo fra tutti/che non riesca e se poi riuscisse/sarebbero fedeli al patto preso?/Oppur fuggire andare nella notte/anche se non s’addice al nostro motto/Allo sbaraglio e che la Morte chiuda/se è da chiudere lo spiraglio aperto!” (CANTO DICIOTTESIMO, IL PARTITO SCONFITTO). Allo stremo delle forze e sempre più divorato dal conflitto interiore e dalla ricerca del vero, il poeta grida: “C’è altro da fare? chiese allora. Il tempo stringe e io non voglio allungarlo, voglio lasciarti l’inizio del discorso: ora intingo la penna nella melma……..Ora intingo la penna nella melma per raccontare i miserabili uomini e le miserabili vicende che annullarono le nostre menti e ci condussero a chiederci, nell’ultimo barlume di coscienza, con uno strappo che non potremo risanare, urlando:” Io sono” …Tutte queste cose sono inferte nel nostro corpo e nel nostro spirito, questo verrà definito, e verrà definito come nessun potere sia tollerabile da alcuna logica , e annulla l’uomo, e che nulla può equivalere quell’utopia meravigliosa che richiede uomini che siano supremi dei. Misera l’ignoranza e miserrima la cultura che non svelino la vanità dell’umano agire; misero ogni sistema che, come ogni sistema, con le sue regole e le sue leggi offende l’intelligenza dell’uomo. Ma debbo chiedermi se l’uomo sia intelligenza o non sia che un impasto di meschinità e di opportunismo, debbo chiedermi se l’inferno non sia la terra. E ancora una domanda, se veramente sia infinita la ripetitiva idiozia dell’umano agire. Queste cose saranno esaminate; e anch’io sono colpevole” (CANTO VENTESIMO LA STORIA). Dopo una invocazione e supplica di risposta agli dei, come nell’inferno anche qui il poeta giunge al limite in stanze labirintiche e trova un passaggio, il punto d’incontro per il terzo luogo, forse il paradiso: New York .Quando l’anima rinascerà come nel mito Platonico, avrà dimenticato questo dilemma? “Ricompongo la frase:/potrò dimenticare? Potrò rinascere?/I corridoi, i cunicoli, le stanze/le stanze dell’addio, le stanze dell’incontro/gli incerti androni della frenesia……” (RONDO’). NIUIORKESE. Il libro della Verità è aperto, una luce fioca ne rende difficile la lettura: “E forse si potrà ancora/se ci saranno propizi/scorrere qualche pagina del Libro/già la luce è fioca alle candele/e come una improvvisa sospensione/si impossessa di me, dal silenzio/si alzano le voci, i volti appaiono/ai margini del foglio/è un’immagine chiara che si smorza/la pupilla la imprime: è questa l’ora:/la notte mi trasporta nei suoi vicoli…..” (“OUVERTURE”). La barca risale la corrente, attratta dal divino: “La barca scivolava lungo il fiume/il cane la guardava, molto strano/che risalisse il corso, senza remi;/non abbaiò, scodinzolò e rimase.” (CANTO PRIMO). È un cammino nel buio, non nella notte: “In questa notte che non è notte ma soltanto buio/buio che penétra l’anima e l’angoscia/questa notte che è buio e soltanto buio/e io cammino ma non vedo i miei passi/non c’è parola che indichi la strada/e io non posso, malgrado tutto non posso/credere uno, essere uno, amare uno.” (CANTO SECONDO I DUBBI). Aiace, gli Dei. È difficile trovare la Verità quando si è incarcerati nel corpo ed esso è stato il metro di giudizio. “O fui quell’altro che in quest’ora siede/non so in quali luoghi, il suo cisposo/sguardo si muove tra utopie e parvenze…/di lui non chiedo, ma ecco già lo vedo/che si interroga e pensa; io come lui/non ho altra misura che il mio corpo” (CANTO QUINTO, IL METRO). Una prima rivelazione finalmente! L’arte è senso, essa non è morte ma vita: “Non è perduto il senso dei tuoi giorni/se ancora cogli un nesso tra le cose…Ti sia consolatore solo il verso/in cui fai confluire spazio e tempo” (CANTO SESTO, DELL’ARTE). Come il susseguirsi della caduta delle pietre causò in ALESSANDRINA il crollo della cupola, così l’inizio della Rivelazione, seppur al buio, muove la prima tessera del domino. Il cerchio sembra iniziare a chiudersi nuovamente: “e ripetiamo in eco/così vorrei finisse/che si chiudesse il cerchio/che si perdesse il senso” (CANTO SETTIMO, IL DOMINO). Eppure ciò non riesce, l’anima ricorda, ma è un ricordo vago e non disseta, il tentativo fallisce. “Rivive in me un ricordo e mi si sfuma” (CANTO OTTAVO. LA SERA). Il saggio resta, allora, ancora dubbioso nel dilemma se la vita sia morte. Tornerà mai la memoria piena? Il paradosso, quasi zenoniano fornisce la soluzione finale: è la morte che ridà la vita. Eh già! Come il poeta in vita ha avuto il dubbio di essere nella morte, così sarà vero il contrario. Non è stato possibile conoscere la Verità perché come nel mito della Biga Alata, l’anima deve disfarsi del corpo per tornare nel mondo delle Idee: “Così io morirò!/poco m’importa , se non conobbi la luce/l’ieri, l’oggi, il domani/prigioniero di me la corda vibra…/I punti si scompongono, stanchi gli occhi/di decifrare, la linea si interrompe/Battuto in spazio e tempo questo temo/che esista cosa che non abbia fine.” (CANTO QUATTORDICESIMO, TRA SPAZIO E TEMPO). Non c’è porta alla fine stavolta, c’è la meta. Il Paradiso, il Mondo delle Idee. Ciò che il poeta cercava, ma non riusciva a raggiungere perché prigioniero alessandrino del corpo. L’auriga ora è governato dal cavallo bianco, prima di una nuova rinascita, egli gode della verità in questo luogo infinito, dove il due non esiste: “Quest’oggi, penso, aspetterò il tramonto/in quest’angolo di mondo dove il deserto/è deserto e non sorgono ombre/che invitino a pensieri paradossi./Qui è per noi, qui la rosa è rosa/e non sfaccetta immagini infinite/e la moneta ha identico il rovescio/e senza effigi e l’orizzonte è chiuso da montagne/che delimitano il mondo/Questo ci basta e questo ci solleva/qui si placano le ansie, si fa certo il destino/nelle mani si chiude l’Universo.” (RONDO’ IL FINITO). Il cerchio si chiude, l’anima non vincolata a nessun corpo si può firmare Nessuno, il mio nome è nessuno. E quindi uscimmo a riveder le stelle….

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