Identità

Lasciati trascinare dalle parole di Andrea Martina:

“Mi ero innamorato di lei prima ancora di conoscere il suo nome. Forse è per questo che in quel periodo le dedicai lunghe pagine del mio diario senza mai citarla esplicitamente benché, a quel punto, come si chiamasse lo avevo finalmente scoperto. Era successo per caso una mattina di metà maggio. Passando davanti al negozio dove lavorava avevo sentito una cliente chiamarla per nome. Non ne fui realmente sorpreso. In qualche modo il suo nome era già impresso a fuoco dentro di me e quando lo sentii per la prima volta provai una forma di struggimento tutta particolare, come se finalmente avessi trovato la conferma di un lontano ricordo non del tutto messo a fuoco e che ora aveva trovato la sua esatta collocazione. 
Ricordo che nell’attraversare il marciapiede antistante la piccola vetrina, avevo rallentato il passo, per poi accelerare all’improvviso, fino a svoltare rapidamente l’angolo e sorridere, estasiato all’idea che lei potesse chiamarsi così. Ripetei mentalmente il suo nome più volte e poi, tornato a casa, osai pronunciarlo ad alta voce, per saggiarne il gusto sulla lingua e le labbra. Era un esercizio puerile, di pura estetica. Sapevo che non avrei mai avuto occasione di chiamarla con quel suo nome così corrispondente a ciò che credevo di sapere di lei.
Sfogliando le pagine del mio diario ritrovo infinite considerazioni sul senso dell’amore e dell’innamoramento. Oggi quelle parole sembrano burro sciolto, una brutta sostanza scura che ha perso tutta la consistenza iniziale ed è finita con il colare giù da un angolo. Alcune lettere sono sbiadite, altre del tutto cancellate. E poi, naturalmente, ci sono quelle che invece hanno conservato tutto il vigore della prima stesura. Devono essere quelle su cui ho esercitato maggiore pressione con la penna. I fogli, a tratti, presentano dei piccoli squarci. 
Solo che non ricordavo tutta quella insistenza nel rimarcare ciò che scrivevo. Per certi versi quel diario non mi appartiene più. La scorsa settimana ho provato a lasciarlo sul tavolo del soggiorno, accanto a un vaso da fiori e sono uscito. 
Ho attraversato buona parte del quartiere, indugiando tra gli espositori di un giornalaio che vende anche vecchi libri e ho ritardato il rientro concedendomi un caffè in un bar affollato, dove ho dovuto sgomitare per conquistare uno spazio al bancone. 
Quando sono tornato a casa, sono andato dritto in soggiorno. Il diario era ancora lì, con la sua copertina rossa e il mio nome corredato di indirizzo scritto in inchiostro nero. Eppure me lo sono rigirato tra le dita, cercando di capire a chi appartenesse. Ho lasciato scorrere le pagine sotto il mio naso, come faccio sempre quando acquisto un libro. L’odore della carta impregnata di inchiostro mi ha fatto pensare che qualcuno doveva essersi dato un bel da fare nel riempirlo di intere frasi. Solo dopo ho realizzato che quel diario mi apparteneva. Così mi sono lasciato cadere sul divano e ho iniziato a leggerlo.
Il viso di lei è tornato a prendere forma mentre riscoprivo la mia grafia fitta di un tempo. Giunto a metà ho sentito sorgere nel profondo una sottile lama di vergogna. Ho temuto potesse squarciarmi dentro, così ho smesso di leggere. Ho gettato via il quaderno. Quello è finito col restare in bilico su un cuscino. Poi ho capito che ad essere in sospeso ero io. Così ho afferrato la giacca e sono uscito a ripercorrere gli stessi passi tracciati tanto tempo prima con infaticabile ostinazione per giungere da lei. 
Mi sono guardato attorno e tutto mi è apparso identico eppure irrimediabilmente mutato, come se sulle cose si fosse posata una patina capace di modificare la reale consistenza di strade e case. Camminando ho toccato i muri e agli incroci mi sono aggrappato ai pali dei semafori solo per saggiarne la consistenza. In alcuni casi ho deliberatamente sfiorato le donne che tornavano a casa con le buste colme di spesa appena fatta, oppure uomini d’affari precipitati in lunghe conversazioni telefoniche. Mi sembrava di averli già incontrati in passato e ho voluto saggiarne ancora una volta il peso, la forma. Ma anche le persone sono irrimediabilmente mutate. Anche su di loro è calata una sottile ombra, un autunno della memoria che ha trasfigurato tutto. 
Poi nel riflesso del finestrino di un’automobile ho indovinato la mia faccia e con essa ho compreso che il cambiamento più radicale l’ho subito io. Adesso i miei occhi vedono un mondo alterato che forse ha semplicemente continuato a scorrere in una direzione opposta alla mia.
Quando ho scorto il suo negozio, incassato tra una lavanderia a gettoni e una rivendita di abiti usati, ho rallentato il passo fino a fermarmi del tutto. Ho pensato di tornare indietro e già mi vedevo dentro casa mentre strappavo il mio diario, una pagina per volta, per poi bruciare tutto fino alla completa erosione di ogni memoria. Perso in quell’immagine non ho davvero realizzato di aver ripreso a camminare, un passo dopo l’altro, fino a ritrovarmi davanti all’ingresso.
La porta sbarrata, il vuoto lasciato dall’insegna, la polvere sulla vetrina disadorna. Ho spinto il viso sul vetro, cercando di intravedere il bancone dove stava lei, immaginando gli scaffali dove puntualmente facevano la loro comparsa le nuove creazioni che realizzava nel laboratorio sul retro.
Di lei non era rimasto più nulla, se non la traccia disegnata dai miei passi che mi avevano condotto fin lì a respirare polvere e ricordi. Quante volte avevo formulato nella mia mente una domanda, una richiesta di informazioni, solo per poterle parlare e scoprire se mi avrebbe sorriso. Non lo avevo mai fatto ed ora tutto era definitivamente perduto, abbandonato come quelle stanze ormai vuote e buie.
Così sono tornato a casa, a testa china, lo sguardo fisso sul marciapiede e poi su, fino al mio appartamento. Senza togliere il soprabito mi sono diretto in soggiorno, ma il diario non c’era più. L’ho cercato sotto il divano. Ho rovistato tra la biancheria sporca e tra i rifiuti abbandonati in cucina. Ma niente, nessun segno della sua esistenza. Sottratto, per sempre. 
Allora ho pensato, ecco com’è l’amore. E mentre mi ripulivo le ginocchia dai riccioli di polvere raccolti dal pavimento ho provato a pronunciare ancora una volta il suo nome ad alta voce. Ma le labbra si sono mosse senza emettere alcun suono. Anche quello era andato perduto, definitivamente sfumato in un ricordo antico ormai privo di identità.”

Andrea Martina

 

 

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