Morto Pierluigi Cappello, la poesia per «riparare» la vita

L’esistenza dell’autore friulano venne segnata da un incidente stradale che lo costrinse
su una sedia a rotelle. Esordì nel 1994 con la raccolta «Le nebbie» (Campanotto)
– Nonostante tutto la poesia arriva. Intervista di C. Taglietti (da «la Lettura» #147)

«La parte soleggiata di noi stessi», così Pierluigi Cappello, diceva in un suo verso.
A cosa stava pensando? A qualcosa, credo, che riposa dentro di noi, una specie di anima comune, profonda, gentile, delicata, eppure, ferma, sicura, inalienabile. Qualcosa come una possibilità prima e ultima di accordarsi con se stessi e col mondo creato; qualcosa capace ancora di felicità e di giustizia, malgrado tutto, contro tutto. Se si guarda di scorcio la vicenda poetica di Cappello, non si potrà non riconoscere come proprio la ricerca e la preservazione di questo luogo interiore abbia costituito la sua motivazione fondamentale e, insieme, il fine stesso delle sue parole. Come tanti che avevano cominciato a scrivere tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, anche Cappello aveva esordito pubblicando i suoi versi quasi alla macchia, tra il calore, l’intensità, la fedeltà di ristrette, quasi sacre amicizie poetiche, e il gelo di una specie d’impossibilità o d’invisibilità pubblica e civile della poesia. Era nato nel 1967 a Gemona del Friuli, anche se era cresciuto nella minuscola Chiusaforte, poco lontano dai confini con la Slovenia e la Carinzia. È morto il primo ottobre a 50 anni a Cassacco (Udine).
Quando nel 1994 esce il suo primo libro di poesie, Le nebbie (Campanotto Editore), già da qualche anno aveva subito l’evento che avrebbe segnato per sempre la sua esistenza: un incidente stradale, la recisione del midollo spinale, le operazioni, quindi la condizione d’immobilità e, insomma, di minorità fisica da cui non sarebbe più uscito (ne racconta anche in Questa libertà, uscito l’anno scorso per Rizzoli). La visibilità arriverà per lui soltanto più tardi, con due volumi pubblicati da Crocetti nel 2006 e nel 2010. Tutte le sue poesie si possono ora trovare raccolte in due volumi, Azzurro elementare e Stato di quiete, usciti entrambi per Rizzoli.
«Col tempo, il letto si è trasformato in un tappeto volante», scrive Cappello in Questa libertà. E in effetti tutta la sua poesia sembra muoversi in una sorta di territorio franco che il giovane poeta ha avuto la forza di ricavarsi tra la stanza e l’aperto, tra l’immobilità e la libertà. Il tratto più caratteristico della sua parola poetica, infatti, sta nella coesistenza tra una grandissima lucidità e consapevolezza, e la calma, il silenzio o appunto la «quiete» da cui la sua voce muove. Come se davvero la sua poesia avesse deciso una volta per sempre di essere inclinata alla comprensione, alla benevolenza, all’amore. Sempre memore delle ferite, del «dolore», della «fatica», il verso di Cappello è però inteso in ogni caso a ricucire, a rimarginare, a comprendere, a lenire, perfino a gioire. Il grande Seamus Heaney parlava non di un illusorio rimedio, bensì della umanissima «riparazione» operata dalla poesia. E in fondo tutto quello che il nostro poeta friulano ha scritto sembra dargli ragione. In una sua poesia dice ad esempio della «parola aggiustata», di una parola, dunque, che aggiusta solo in quanto si sforza di essere il più possibile giusta. Sia nelle poesie in lingua sia in quelle in dialetto Cappello ha cercato una sintonia con gli elementi primi della vita, con i sentimenti e le parole basiche, con la costellazione dell’azzurro. Azzurro elementare, appunto. Luce, vento, cielo, sole, raggio, nuvola, prato, erba, foglie, stelle, primavera, inverno, neve, notte, luna: queste e poche altre sono le parole-cose a cui sempre fa riferimento. In particolare, il Cappello migliore, il più toccante, almeno, si trova probabilmente nei primi libri, lì dove il giovane ragazzo sta cercando con tutto se stesso una ragione, una strada, una vita diversa e migliore rispetto a quella che il destino sembrava avergli assegnato. C’è riuscito, anche grazie alla poesia, così adesso tutto davvero appare compiuto.

di Roberto Galaverni, il Corriere della Sera

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