Gianrico Carofiglio: “L’importante in un romanzo è quello che si toglie”

Lo scrittore racconta l’ultimo libro “Le tre del mattino”: “Lascio perdere le parole inutili”

Due notti insonni a Marsiglia, padre e figlio che esplorano la città, i locali, il jazz, le case; che s’imbattono in nuove e a volte conturbanti amicizie, ma soprattutto, finalmente, si riconoscono. Gianrico Carofiglio col nuovo romanzo Le tre del mattino (Einaudi Stile Libero) ci racconta una città e soprattutto il rito di passaggio di un diciottenne, anzi, come dice lui, «una situazione». E l’abituale nota dell’autore, quella che nessuno legge mai, annuncia che tutti i personaggi sono frutto di invenzione, «tranne uno».

Non male come esca al lettore. Che cosa si nasconde dietro l’invenzione? «Una storia vera, o almeno la traccia di una storia vera, che mi raccontò un amico molti anni fa», ci dice nella sede dell’Einaudi, a Torino. Conversare con il creatore dell’avvocato Guerrieri o dell’ispettore Fenoglio è sempre un’esperienza particolarmente piacevole. Carofiglio non nasconde il suo laboratorio, il suo scrittoio; anzi continua a rifletterci sopra. In questo caso, sulla scrivania si sono accumulati molti libri di matematica, ma anche di medicina, insieme a quelli che non toglie mai, i suoi amati manuali di scrittura creativa.

«Sì, devo dire che ho lavorato molto».

Su Marsiglia? 

«Non solo. Per raccontare una città bisogna conoscerla bene, non trascurare i particolari. Ma il nocciolo tecnico di questa storia è vero: un amico mi aveva raccontato che negli Anni Ottanta si era fatto curare a Marsiglia da una forma di epilessia. Nel libro c’è lo specialista cui si rivolse, con il suo esatto nome anagrafico, e appunto il test che fece per capire se fosse davvero guarito – ora non si fa più: due notti completamente insonni, comportandosi normalmente ma non chiudendo occhio, con l’aiuto dell’anfetamina. Tutto il resto è ovviamente frutto di invenzione».

E l’invenzione riguarda un tema centrale nella narrativa dal Novecento in poi: il rapporto tra padre e figlio. Dall’uccisione rituale al «perdono» del padre, come sembra accadere sempre più spesso nei romanzi contemporanei.

«In questo caso il ragazzo perdona in qualche modo se stesso dopo aver “ucciso” simbolicamente il padre soffocando in sé un talento: quello per la matematica».

Nelle due notti insonni si apre finalmente alla figura paterna; anzi, per meglio dire, due uomini si aprono a se stessi e finalmente si capiscono. E’ questa la sua idea del rapporto padre-figlio?

«Non saprei. Io sono solo capace di raccontare storie, con tutte le loro imperfezioni, il loro non detto. Come il jazz, la cui caratteristica fondamentale è di essere sempre incompiuta».

In questo libro ha una funzione decisiva.

«Scriverlo è stata anche l’occasione di studiarlo. Ho preso anche lezioni di pianoforte…».

E come se la cava?

«Benino, tutto sommato».

Medicina, matematica, musica. Ha studiato moltissimo. E questa è una sua caratteristica, quando scrive. Perché ci tiene tanto?

«Da lettore, se in un libro incappo in qualcosa che conosco bene e trovo la minima imperfezione, mi crolla il patto di credulità che ho implicitamente concluso con l’autore alla prima riga. Da scrittore, cerco di evitare questo rischio».

Questo libro è la storia di un incontro.

«Sì, parla del talento e dell’amore, e del passare del tempo…».

Che tipo di sfida rappresenta per lei un romanzo?

«In un romanzo è importante quel che si toglie. Sono gli spazi bianchi, dove lettore e autore si accomodano insieme, e guardano. Sa qual è la mia regola preferita? La numero 17 del classico manuale di William Strunk (The elements of style): “Lascia perdere le parole inutili”».

Dura disciplina. Cui lei, cultore di arti marziali, sarà abituato.

«Nel combattimento le cose superflue sono pericolose…».

È uno sport non comune tra gli scrittori.

«È un enorme serbatoio di metafore. L’avvocato Guerrieri pratica il pugilato e pensa che discutere col sacco della boxe sia più utile, e più economico, che non parlare con lo psicanalista».

E nel caso dello scrittore Carofiglio?

«Aver praticato karate ha avuto sicuramente un rapporto con la mia scrittura, spingendola all’essenzialità. Una caratteristica molto giapponese».

Per esempio nei rapporti con la violenza? E’ molto presente nei suoi libri, come ne fosse affascinato oltre che disgustato. Lo è stata anche nella vita?

«Da ragazzo, a Bari, vivevo in un quartiere borghese, ma confinante con un altro piuttosto complicato. Attraversarlo poteva voler dire affrontare duri scontri fisici. Una volta dovetti battermi con un energumeno, il capo di una banda di bulletti».

Sfida cavalleresca?

«Ce ne demmo tante. La violenza è ripugnante, ma bisogna saper sopravvivere».

Che cos’è il talento?

«Il talento ci riguarda di tutti, in vari campi. Pensi alla parabola evangelica. Può essere fonte di situazioni anche tragiche, quando sfida il mondo; ma in generale è semplicemente una possibilità. La puoi sfruttare o buttare a mare».

Cosa che lei si è sempre ben guardato dal fare.

«Non dovrei essere io a parlare dei miei talenti».

Anche lei come il suo personaggio è però è passato fra diverse vite: magistrato, parlamentare nella XVI legislatura, ora esclusivamente scrittore.

«Salvo per le lezioni che do alla scuola di magistratura. Diciamo che ogni volta sono “morto” per rinascere diverso».

Per fermare il tempo?

«Per avere nuove vite».

Senza cancellare le precedenti?

«Nel “passare” del tempo c’è non solo il trascorrere ma anche il “passare”, appunto, qualche cosa a qualcuno, tramandare».

di Mario Baudino la Stampa

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